Don Giovanni Momigli

Schema Omelia Domenica 26 settembre 2021

XXVI Domenica Tempo Ordinario Anno B: Num 11,25-29   Sal 18   Giac 5,1-6   Mc 9,38-43.45.47-48

Domenica scorsa abbiamo visto come nel cuore dei discepoli abita la tentazione del potere, di voler essere considerati grandi, di voler essere i primi (Mc 9,34).

Nel brano di Vangelo di oggi ne troviamo un’altra: la tentazione non solo di essere i primi, ma di essere gli unici.

Nel viaggio verso Gerusalemme, mentre Gesù istruisce i suoi sul mistero della sua morte e risurrezione, i discepoli vedono uno che opera nel nome di Gesù e cercano di fermarlo.

Riferiscono la cosa a Gesù cercando il suo appoggio: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva» (Mc 9,38).

I discepoli non guardano al bene compiuto nel nome di Gesù, ma si fermano sul fatto che quell’uomo non faceva parte del loro gruppo, non seguiva loro, non riconosceva la loro autorità.

Con la sua risposta Gesù rimette le cose al loro posto: la sequela è seguire il Maestro non diventare seguaci dei discepoli. Gesù è l’unico maestro e nessuno può mettersi al suo posto, neanche coloro che lo seguono fin dall’inizio.

Gesù è il solo e unico riferimento. È intorno a lui e avendo lui come fondamento che i vari discepoli possono trovare unità e divenire “corpo ecclesiale”.

L’atteggiamento di Giovanni, come quello di Giosuè nella prima lettura, è molto umano, molto comune. Lo possiamo trovare nelle comunità cristiane di tutti i tempi, probabilmente anche dentro noi stessi.

In buona fede, addirittura con zelo, siamo tentati di proteggere quella che pensiamo sia l’autenticità di una certa esperienza, come se solo noi fossimo i veri e unici interpreti e custodi.

Questo atteggiamento deriva dalla volontà di controllo e di possesso, dalla quale nasce quella gelosia di cui parla il testo del libro dei Numeri (11,29), ossia il timore che qualcuno possa fare quello che facciamo noi senza essere dei nostri.

È una forma di autoreferenzialità, che si consegna allo spirito diabolico di quella concorrenza, anche religiosa, che mette al primo posto non il bene, ma il bene che facciamo noi, e che misura tutto con gli indicatori umani di quantità: consensi, adesioni, risultati.

«Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!», risponde Mosè a Giosuè che voleva impedire di profetizzare ai due sui quali era sceso lo Spirito, ma che non erano andati all’incontro al quale erano stati convocati.

E Gesù rincara la dose: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi». Come dire: non c’è esclusività.

Il bene può venire anche da chi è diverso da noi, ma ha un’unica origine. E ogni volta che il bene si compie dobbiamo rallegrarci.

Se, ad esempio, ci fosse un centro di distribuzione viveri diverso dal nostro in grado di soddisfare tutte le necessità, dovremmo rallegrarci e indirizzare la nostra creatività e le nostre forze per rispondere ad altri bisogni, che purtroppo non mancano. E se nelle varie parrocchie nascono proposte di catechesi, i momenti di preghiera e di adorazione eucaristica, dovremmo rallegraci, perché si moltiplicano le opportunità.

Se anziché rallegrarci, ci amareggiamo perché queste buone iniziative vengono promosse da altri e perché possono far perdere di peso alle nostre, significa che la radice che muove non è l’amore per il bene e neppure a l’amore per Gesù Cristo che è fonte di ogni bene, ma il nostro voler essere primi e unici.

In presenza di questi atteggiamenti, personali e comunitari, che rappresentano un ostacolo nell’adesione a Cristo, con espressioni forti (amputarsi la mano che rappresenta l’operare, il piede che dice la condotta e l’occhio quale criterio con cui si valuta), Gesù invita a recidere dal proprio cuore tutto ciò che ci chiude in noi stessi, che non rispetta la sacralità degli altri e che preclude l’accesso alla vita vera, autocondannandoci al destino infernale della solitudine.

È molto più semplice pensare che il problema sia fuori di noi, fuori della nostra comunità, illudendosi così di essere vicini a Cristo, anche se col nostro sentire e il nostro pensare siamo lontani da lui.

Gesù insegna che il discepolato non è vero perché si appartiene a una certa cerchia e si fa proselitismo per far riuscire le nostre iniziative di bene.

Il discepolato è camminare costantemente dietro a Cristo e vivere il perenne apprendistato della custodia fraterna, di quell’amore che riconosce la «terra sacra dell’altro» (Evangelii gaudium 169), e che permette di entrare nella pienezza della vita.

Don Momigli

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