Quinta Domenica di Pasqua Anno B: At 9,26-31 Sal 21 1Gv 3,18-24 Gv 15,1-8
Saulo di Tarso doveva averle fatte di tutti i colori contro i cristiani quando era a Gerusalemme, se la sua sola memoria suscitava timore e incredulità: «tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo» (At 9,26).
Anche se Saulo ha incontrato direttamente Cristo risorto, per potersi inserire di fatto nella comunità cristiana, c’è stato bisogno di alcune persone già credenti che lo accogliessero e lo accompagnassero: prima Anania e ora Barnaba (c fr At 9,10-17. 27)
Non si è mai cristiani da soli. Con Cristo non esiste una relazione “fai da te”. La fede cristiana ha sempre dimensione comunitaria e si fonda nella stabilità della relazione, sul legame di tutti con l’unico fondamento che è Cristo.
Gesù parla spesso per immagini. Quella della vite e dei tralci, che ci viene offerta in questa domenica, fa capire chiaramente che solo rimanendo in Cristo, vera vite, si può trarre la linfa dell’amore di Dio che ci fa produrre frutti di bene in noi stessi e per il mondo.
La vite è pianta rigogliosa, ma non porta frutto immediatamente: A volte richiede anni di attesa per ‘figliare’ grappoli di qualità. E quest’attesa, per noi del tutto subito, può condurci alla ricerca di altri punti di riferimento, di altre viti che, pur false, nell’immediato sembrano gratificarci.
Una falsa vite, ad esempio, è una religiosità fatta di riti e di sacrifici, che porta a osservare norme e moltiplicare preghiere; una spiritualità disincarnata ricercata per trovare risposte alle nevrosi, alle sue insoddisfazioni e alle sue incertezze. Religiosità che rischia di farci inaridire, che non cambia il cuore, che non fa vivere la libertà e la fecondità del legame di amicizia con Dio.
Il segreto di tutto è racchiuso in un verbo, che troviamo nella seconda lettura e nel vangelo: «rimanere» (cfr 1Gv 3,24 e Gv 15,4). Rimanere in Dio. Rimanere in Cristo.
La cultura nella quale siamo immersi, rende difficile la stabilità, il rimanere in una relazione e in un rapporto comunitario.
Quasi per paura di essere trattenuti o per la sensazione di essere “intrappolati”, si coltiva l’illusione di una presunta libertà privilegiando il provvisorio, che però ci rende fragili, instabili ed esposti al vento del momento.
Rimanere in una relazione non è certamente facile. Ma una relazione vera è inevitabilmente esigente, scomoda e sprona, ci spinge a guardare le cose e le situazioni anche da un altro punto di vita. Così è pure la relazione con Dio.
Il segreto non è nel fare, ma nel coltivare un legame di amicizia, una relazione personale, un’accoglienza continuativa della sua Parola che ci trasforma.
Chi rimane, chi non rompe il legame, chi continua ad ascoltare la Parola di vita, svilupperà un rapporto così profondo che non può limitarsi alle chiacchiere. Quando siamo in Cristo «non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1 Gv 3,18).
Come il tralcio non sussiste senza la vite, così la nostra vita senza la relazione con Gesù, si inaridisce, secca, perde senso. Muore.
La vite è anche immagine della comunità cristiana. Ogni tralcio, pur nella sua singolarità, condivide con tutti gli altri la stessa linfa: la vita spirituale non è mai un fatto che riguarda solo noi, ma è sempre condivisione con altri.
Si possono avere anche buone ragioni per separarsi da una comunità, ma non saranno mai superiori alla ragione che ci chiama a vivere la nostra fede nella sua dimensione comunitaria: si è parte di uno stesso corpo.
Una comunità è arida, infeconda, piena di defezioni, tradimenti, egoismi, conflitti, quando i suoi membri vivono il rapporto in superficie, senza radicamento nel fondamento che è Cristo.
La vita è fatica e dolore. Anche la vita comunitaria è fatica e dolore. Il dolore, però, non è dato solo dal taglio dei tralci infecondi, ma anche dalle potature. Sono sempre ferite, che sul momento possono sembrare un dolore inutile o ingiusto, ma che col tempo, mostrano la loro necessità.
Se siamo radicati in Cristo, che è la vite, nonostante tutto, affrontiamo il presente con fiducia in lui e nel Padre, che è «l’agricoltore» (cfr Gv 15,1).