Terza di Avvento anno A: Is 35, 1-6. 8. 10; Sal. 145; Gc 5, 7-10; Mt 11, 2-11
Nel cuore del cammino dell’Avvento, la liturgia comincia a far volgere il nostro sguardo dall’ultima venuta del Signore alla capanna di Betlemme.
Da sempre quella di oggi è considerata la domenica della gioia e nell’antifona di ingresso risuonano le parole di Paolo ai Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti…Il Signore è vicino» (Fil 4,4.5).
È la domenica della letizia, non dell’euforia. Si può essere euforici perché ubriachi di vino, ma anche di successo, di potere, di affermazione; ubriachi dei propri talenti, delle proprie capacità, dei propri ruoli; ubriachi di spazi conquistati e gelosamente difesi e anche dei buoni servizi che si compiono.
Quando siamo euforici siamo ciechi: guardiamo solo a noi stessi, senza vedere la verità di quello che siamo, di quello che facciamo e di come lo facciamo; senza vedere che, pur facendo opere di carità fatichiamo a camminare sulle strade del Vangelo della carità.
La quotidianità della vita, alleata della verità, pian piano fa passare l’ubriachezza e l’euforia e tutto diventa pesante, senza senso e ci troviamo come di fronte a un bivio: lamentarsi per la vita contro tutto e tutti per gli spazi e le illusioni perduti oppure fare un vero cammino di ricerca di verità e di senso.
Quando prendiamo coscienza dei danni che le nostre euforie hanno prodotto in noi e fuori di noi, forse siamo anche pronti ad accogliere il Cristo che viene, annuncio di vita e sorgente della vera gioia.
La gioia, infatti, nasce non tanto dall’aver conquistato qualcosa, ma dall’aver trovato tutto in Colui che è la pienezza.
È la gioia che nasce dallo sguardo risanato dalla grazia per cui ogni esperienza lieta o triste, trova il suo posto nel cammino della vita e della salvezza.
Lo stesso Giovanni Battista, figura centrale anche in questa terza domenica di Avvento, ha avuto bisogno di purificare il proprio sguardo.
Non lo troviamo più sulle rive del Giordano che con zelo invita alla conversione annunciando la vicinanza del regno. Ora si trova in carcere e in una difficoltà che potremmo dire identitaria per le notizie che gli arrivano su Gesù.
Cristo come Messia appare diverso da quello da lui annunciato e Giovanni poteva facilmente pensare di aver sbagliato tutto, di aver indicato la persona sbagliata.
Gesù non sembra incarnare quel messia annunciato dal Battista come colui che sarebbe venuto a sovvertire le cose, con in mano la scure pronto a tagliare gli alberi infruttuosi. E allora manda a Gesù i suoi discepoli con una precisa domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3).
Questa domanda segna un cambio di atteggiamento: Giovanni da precursore può diventare discepolo. Se, fino a questo momento, è andato dinanzi al Signore per annunciare che sarebbe venuto e per preparargli le strade, d’ora in poi è chiamato a seguirlo, diventando il testimone del suo essere già tra noi.
L’immaginario sul Messia – non solo quello del Battista, ma anche il nostro – può essere un grande inganno, frutto di un’aspettativa tutta umana: pensare la salvezza come vorremmo noi e così come noi siamo, senza cambiare niente.
Cristo, però, non corrisponde né risponde ai desideri della nostra carne e della nostra psiche, ma all’amore del Padre: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,4-6).
Gesù coltivava per il Battista grande una stima, ma è ben consapevole che, per entrare nel regno, anche lui deve realizzare in sé stesso quella conversione che chiedeva agli altri, come appare evidente dalle sue parole: «tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11).
Questa vicenda del Battista invita ciascuna e ciascuno di noi ad uscire dall’ambiguità, verificando la propria posizione nei confronti di Gesù partendo dal dubbio, aprendosi alla domanda e concludendo il percorso con l’accettazione o il rifiuto.
Dio ci trascende, ci sfugge, è sempre oltre: non riusciremo mai a conoscerlo fino in fondo, perché non può essere com-preso.
La gioia non deriva dal cercare in Gesù quello che noi vorremmo che lui fosse, secondo le logiche del mondo, ma accogliendolo come lui è e si rivela.
La gioia viene proprio dal guardare l’opera di Dio lasciandosi sorprendere e lasciandosi liberare anche dalle nostre idee su di lui, che molto spesso ci rendono facile preda di ciò che ci dà euforia, ma che ci fa perdere senso e dignità.