XXVIII Domenica Tempo Ordinario Anno B: Sap 7,7-11 Sal 89 Eb 4,12-13 Mc 10,17-30
La sapienza della vita non deriva da studi lunghi e approfonditi, né da un ricco bagaglio di conoscenze e informazioni. Questo tipo di conoscenza, da sola, può anche pesare negativamente e portare a un’eccessiva fiducia nel ragionamento e all’errata pretesa di essere sempre in grado di valutare e giudicare tutto e tutti.
Per valutare con realismo le scelte da compiere in relazione alle caratteristiche personali, alla specifica situazione nella quale ci troviamo e alle possibilità concrete che abbiamo davanti, serve è la sapienza del cuore, la saggezza del vivere.
Potremmo anche trovarci davanti solo possibilità e cose buone, ma il fatto che siano buone non significa che tutte siano di aiuto in un determinato momento della propria vita personale, familiare e anche collettiva.
È lo spirito di sapienza, di cui parla la prima lettura, che può guidare alla scoperta del senso della vita; che può favorire il superamento di una religiosità costruita su schemi tutti umani e che imprigiona anziché rendere liberi; che può aiutare a comprendere Gesù, che propone un nuovo modo di pensare, di essere e di vivere, come appare anche dal brano del vangelo che abbiamo ascoltato.
Marco parla di un uomo che corre incontro a Gesù, quasi a sottolineare l’urgenza che lo muove. Ma a quest’uomo non sembra interessare la relazione con Gesù, ma solo la sua saggezza.
Giunto davanti a Gesù, infatti, si getta in ginocchio e, chiamandolo «Maestro buono», gli domanda: «che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10,17). La vita che cerca non è solo quella dell’aldilà, ma una vita più piena anche nel presente.
L’appellativo «Maestro buono» non indica un apprezzamento morale di bontà, ma significa buon maestro, maestro insigne, maestro grande.
Con la sua risposta, praticamente Gesù dice a quell’uomo che un maestro buono, insigne e grande ce l’ha già: è Dio con la sua legge (cf Mc 10,18-19). E poi gli indica i comandamenti che si riferiscono all’amore verso il prossimo, perché tutto ciò che si vuol fare verso Dio passa dal rapporto con gli altri.
L’uomo dice di osservare i comandamenti da sempre. Ma il fatto di cercare ancora dimostra che porta nel cuore un desiderio di maggiore completezza, che la sola osservanza dei comandamenti non riesce a estinguere.
“Guardando dentro di lui”, come letteralmente indica il verbo greco usato da Marco, «lo amò». E, per realizzare il desiderio che porta nel cuore, gli fa una proposta concreta: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (Mc 10,21).
Lo slancio iniziale si spegne e il desiderio della vita eterna rimane soffocato nell’infelicità di una sequela mancata.
Quest’uomo non si lascia conquistare dallo sguardo di amore di Gesù: rimane intrappolato nell’illusione data dalla sicurezza dei propri beni. Del resto, chi vive con la logica del “fare per ottenere”, sviluppa una mentalità di possesso e non contempla la possibilità del dono, la gratuità dell’amore.
Già la domanda posta a Gesù dimostra che la visione dell’uomo è errata. Per ereditare non si deve fare qualcosa. Basta avere l’appartenenza; basta essere figli: «Se siamo figli siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17).
L’invito a seguirlo, con cui Gesù conclude la sua proposta di vendere tutto per dare ai poveri, è una proposta di relazione, di appartenenza. L’uomo, però, «si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,22). Apparteneva già ai suoi beni e ad essi rimane legato.
Dopo che l’uomo si è allontanato, Gesù suscita la reazione dei discepoli parlando della difficoltà per un ricco di entrare nel regno di Dio e dell’impossibilità degli uomini di salvarsi. Solo Dio può salvare «Perché tutto è possibile a Dio» (Mc 10,27).
Da quello che Pietro dice a Gesù dopo le sue affermazioni sulla ricchezza e la salvezza – «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Mc 10,28) -, emerge che, nonostante l’aver lasciato la vita di prima, nel cuore dei discepoli non è ancora avvenuto un vero e proprio distacco dalle loro cose, ragioni, aspettative, attese, pretese…
La parola di Dio, non basta ascoltarla, ma va accolta nel profondo di noi stessi, per discernere «i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12), altrimenti non si intaccano le nostre appartenenze e, pur seguendo Gesù, si sperimenta quella tristezza che deriva dal non lasciarsi amare fino in fondo, perché nel cuore c’è ancora altro.
Lasciarsi amare significa fare spazio allo sguardo di un altro ed è sempre un rischio, ma l’alternativa è la solitudine e la schiavitù dei beni.
Ancora una volta appare chiara la differenza fra la persona di fede, che si fida e si affida totalmente a Gesù, e la persona che si basa sulle forme della religione, fidandosi e affidandosi alle proprie opere, pur fatte in nome di Dio.
Solo aprendosi all’amore di Gesù e mettendoci alla sua sequela si possono mettere in secondo piano le nostre umane appartenenze e sperimentare la bellezza e la pienezza di una vita accolta come dono e che si fa dono.