XXXII Domenica Tempo Ordinario Anno B: 1Re 17,10-16 Sal 145 Eb 9,24-28 Mc 12,38-44
Il tempio è luogo del culto: del sincero incontro con Dio, in una dimensione sacrale, intima e anche comunitaria. Come le nostre chiese.
Se, però, ci lasciamo assorbire dal ritualismo e dal formalismo o se ci chiudiamo in ritmi e modalità espressive lontane dalla vita quotidiana, frequentare il luogo di culto può anche allontanarci dal fondamento, farci perdere di vista l’essenziale e smarrire il rapporto con la realtà.
Gesù insegna a porsi in maniera libera e intelligente di fronte alla legge e al culto, per ristabilire le priorità tra i bisogni delle persone e l’osservanza delle prescrizioni; per recuperare ciò che è essenziale per la vita e quello che serve davvero in una relazione autentica con il Signore e con gli altri.
La stessa disputa sul sabato e la guarigione dell’uomo dalla mano inaridita, effettuata da Gesù proprio di sabato nel tempio in cui ora sta parlando per l’ultima volta, tendono a far recuperare il senso di realtà e la dimensione dell’essenziale.
L’episodio della vedova che getta due monetine nel tesoro del tempo e il commento che fa Gesù di questo suo gesto, pertanto, non possono essere ridotti a un semplice invito alla generosità.
Nel brano che abbiamo ascoltato, l’evangelista Marco, anzitutto, ci presenta Gesù che invita a guardarsi dagli scribi e a prendere le distanze dai loro atteggiamenti.
Gli scribi di cui parla Gesù rientrano in quella categoria di persone che, per distinguersi e farsi notare, approfittano le loro relazioni e strumentalizzano persino il bene: usano la preghiera, le occasioni di predicazione, gli eventi pubblici come i banchetti, addirittura la legge, per raggiungere lo scopo di attrarre l’attenzione su di loro.
Indossavano vesti speciali e assumevano atteggiamenti particolari per essere notati e ritenevano di poter parlare in nome di Dio e di giudicare, perché conoscevano la dottrina.
Ma la conoscenza della dottrina non è affatto sufficiente per costruire un positivo rapporto con Dio e con gli altri: «Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere» (Mc 12,40)
Per essere graditi a Dio non basta frequentare assiduamente il luogo di culto, soprattutto quando le modalità con cui si partecipa tendono a mettere in evidenza sé stessi e quando il nostro esserci diventa un ostacolo, se non addirittura un impedimento, per gli altri e all’apertura della comunità a quella novità che il Signore sempre suscita e chiede al suo popolo.
Gli scribi vengono qui presentati come l’immagine dell’anti-discepolo, proprio perché puntano alla formalità e all’apparenza, la loro sicurezza si basa più sulla conoscenza della dottrina che sul rapporto con Dio e divengono un peso per gli altri.
Non basta neppure fare offerte abbondanti, come i ricchi che gettano nel tesoro del tempio «parte del loro superfluo» (Mc 12,44).
È necessario fidarsi e affidarsi a Dio. Come ha fatto la vedova di cui parla la prima lettura, che fa quello che le chiede il profeta Elia (1Re 17,10-16), e come ha fatto in modo ancor più radicale la vedova del vangelo, che dona le uniche sue «due monetine» (Mc 12,41), senza essere in presenza di nessuna promessa immediata.
Non sappiamo se questa vedova elogiata da Gesù, per aver affidato a Dio tutto ciò che aveva, tutta la propria vita, abbia poi avuto la possibilità di continuare a vivere, ma di certo sappiamo che ha amato fino in fondo, consegnandosi totalmente a Dio.
Mi pare estremamente interessante e provocatorio per tutti noi il fatto che Gesù non condanna mai i cosiddetti peccatori classici, identificabili da tutti, ma coloro che utilizzano la religione per affermare sé stessi, per apparire diversi da quello che sono in realtà, per ottenere prestigio e potere.
La relazione con Dio, come ogni vera e significativa relazione, va vissuta fidandosi, rischiando, consegnandosi.
Il tempio, gloria del popolo di Israele, è stato distrutto. Molte nostre modalità di vivere il culto sono state superate dai tempi. Le nostre stesse chiese verranno meno. Noi stessi passeremo, come «passa la scena di questo mondo!» (1Cor 7,31). Solo «la carità non avrà mai fine» (1 Cor 13,8).
Quello che rimane, dunque, è una relazione vera; è l’amore vissuto mettendo in gioco la propria vita. Spendendosi fino in fondo nella relazione con Dio, e con gli altri. Donando quello che abbiamo per sopravvivere, per poter vivere.