Le nostre comunità parrocchiali sono in profonda crisi, ma non sono morte: ci sono ancora e devono continuare ad esserci nel futuro.
Parafrasando la Lettera a Diogneto, quando dice che «i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo», potremmo dire che se venissero a mancare le comunità parrocchiali, sarebbe come se venisse a mancare l’anima all’interno di un paese o di un quartiere.
L’anima, però, non è data dalla presenza fisica di una chiesa parrocchiale in un dato territorio e neppure dalla gente che frequenta la chiesa individualisticamente, per rispondere al proprio bisogno religioso.
Quando ci si limita a ricercare il proprio presunto benessere spirituale, si presenta «il volto di una fede che incide poco. Una fede che, sì, guarda al Cielo, ma che poi stenta a tenere i piedi per terra; una fede che talvolta diserta la strada, una fede che latita dove invece dovremmo trovarla impegnata a tradurre il Vangelo in segni di vita» (Card. Gualtiero Bassetti. Consiglio Permanente della CEI, 21 marzo 2018).
Forse anche per questo diffuso atteggiamento dei cristiani di oggi, ma non solo per questo, le nostre città sembrano senz’anima. Occorre anche tener presente che nell’attuale fase storica è necessario passare dall’amore del prossimo alla prossimità, come suggerisce l’enciclica Fratelli tutti con una lettura tutta particolare della parabola del buon samaritano (vedi incontro del 15 marzo scorso).
È ingannevole una “vita cristiana” incapace di creare un movimento di comunione con i fratelli e le sorelle che condividono gli stessi momenti di preghiera e incapace di aprirsi insieme nella costruzione di una fraternità più larga. Lo stesso annuncio e la testimonianza cristiana risultano menomati.
Le persone possono essere aiutate ad accogliere l’annuncio di Cristo non semplicemente se sono poste davanti alla Parola proclamata, ma se incontrano credenti e comunità che si verificano continuamente a partire dal Vangelo e non solo con l’assiduità alle celebrazioni e coi servizi svolti.
Un figlio non diventa adulto per le prediche dei genitori, ma perché vive con loro e perché impara dal loro stile di vita il modo di stare al mondo. Così le persone possono essere attratte da Cristo e maturare nella fede solo vedendo come la Parola di Dio agisce nella vita dei singoli e della comunità cristiana.
Occorre (ri) trovare la centralità della Parola e della comunione come stile di vita ecclesiale, evitando di confondere l’individualismo (singolo o di gruppo) con la singolarità e la specificità del carisma (singolo o di gruppo).
Non ci sono solo chiese in diversi luoghi, ma anche chiese che vivono con sensibilità differente nello stesso luogo, per la loro storia e per le persone che le costituiscono.
In ogni comunità si trovano identità personali, sensibilità e modi di relazionarsi alla realtà differenti, come sono differenti i percorsi di vita personali, i bisogni e le aspettative.
Tutti, però, siamo chiamati a vivere come membra dello stesso corpo.
Se un membro non condivide, mettendolo in circolo, il proprio particolare carisma, è il corpo nella sua totalità che ne soffre.
Se un membro non interagisce con il cammino degli altri, perché ritiene che questa condivisione non sia compatibile con il suo percorso spirituale o perché teme che la condivisione possa limitarne il livello o la fedeltà, siamo di fronte a una pericolosa deriva.
Il famoso scrittore G.K. Chesterton, invitando a prendere coscienza che siamo nani sulle spalle dei giganti, nella sua opera “La nonna del drago e altre serissime storie”, scrive: «L’orgoglio è un veleno così mortale che non solo avvelena le virtù: avvelena anche gli altri vizi».
Questa frase identifica in modo lapidario una delle situazioni più pericolose per la vita spirituale: vivere rigorosamente la fedeltà ai vari aspetti della vita cristiana, come espressione del personale cammino di perfezione, anziché come frutto di un cammino di conversione, che per essere autentica deve necessariamente essere continua.
Quando la via da percorre per essere fedeli al vangelo e per rispondere alla chiamata di Dio, viene identificata con il proprio pensiero e il proprio sentire, i vari vizi spariscono davvero, sepolti sotto l’orgoglio di una vita virtuosa. Vita che porta con sé anche la pretesa di convertire gli altri al proprio percorso.
Questa situazione è molto complessa sul piano spirituale, perché la persona che si trova a vivere questa dinamica difficilmente si rende conto delle bacate radici del suo comportamento virtuoso, ma resta profondamente convinta di condurre una vita esemplare e di non doversi rimproverare nulla.
Questo tipo di persona, continuerà a professarsi peccatrice, non perché creda davvero di esserlo (soprattutto peccatrice nel sono proprio, come fallimento del bersaglio e, quindi, di via), ma perché così facendo risplende la sua umiltà e alimenta il radicamento nel suo cammino di perfezione spirituale.
«A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,7). La manifestazione di un dono esige sempre la disponibilità a metterlo in circolo per il bene di tutti.
Non bisogna mai cedere alla presunzione di non avere bisogno degli altri, che possiamo fare a meno del dono che sono gli altri.
Il carisma non va inteso come una qualità umana, una competenza, una particolare abilità. Nella prospettiva cristiana, il carisma è ben più di una qualità personale, di una predisposizione di cui si può essere dotati.
Il carisma è una grazia, un dono elargito da Dio Padre, attraverso l’azione dello Spirito Santo, per il bene comune.
È all’interno della comunità che sbocciano e fioriscono i doni di cui ci ricolma il Padre; ed è in seno alla comunità che si impara a riconoscerli come un segno del suo amore per tutti i suoi figli.
Il carisma manifesta la bontà di Dio. La diversità dei carismi diventa fonte di unità ogni volta in cui la persona, e la stessa comunità, volge il suo sguardo all’unico donatore.
Paolo, nella prima lettera ai Corinti (cfr 1 Cor 12,4-11) parla della pluralità dei doni, dei ministeri, delle attività che Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo distribuiscono a piene mani agli uomini.
Lo stesso Spirito che dà questa differenza di carismi, fa l’unità della Chiesa, perché la vita di comunione è preziosa per una Chiesa che vuole vivere intensamente la fede.
La sorgente di ogni carisma è unica, come unico è il bene per cui i doni sono stati elargiti. Se non generano comunione, non creano legami e relazione, non contribuiscono a costruire comunità, non si tratta di carismi dati da Dio. Oppure si tratta di carismi traditi.
In ogni parrocchia Dio suscita carismi. Anche in questa parrocchiale ci sono molti carismi. Il problema nasce quando i doni ricevuti vengono spesi solo nell’anonimato individuale o del piccolo gruppo, quando vengono vissuti senza diventare lievito che fa fermentare comunità, quando non vengono vissuti in modo da rappresentare la base su cui si costruire una comunità riconoscibile e inclusiva.
Una delle difficoltà più significative che incontra un parroco è proprio quella di mettere insieme la capacità di accogliere le persone, rispettando il loro vissuto, con la necessità di operare, con l’ottica evangelica e comunitaria, un discernimento sul loro stile di vita, sui loro carismi e su come li vivono.
Un parroco deve essere comprensivo per il vissuto, i tempi e i ritmi delle persone, ma questa comprensione della persona non può farlo abdicare dal suo compito di guida.
Per i singoli fedeli e per il parroco, l’elemento di verifica rimane sempre e comunque la centralità della Parola di Dio e la costruzione della comunità.
Costruire fraternità e comunità è un processo in costante divenire e, per parroci e fedeli, comporta la quotidiana fatica di andare sempre oltre, coltivando la comunione e la costante interazione.