Don Giovanni Momigli

Comunità parrocchiale: interattiva, innovativa, educante. Schema incontro 5 aprile 2022

La parrocchia è chiamata a stare dentro un cammino di cambiamento e di crescita costante.

La parrocchia ha il dovere di ripensare sempre sé stessa, conoscendo e relazionandosi con i volti e le storie di vita delle persone che la compongono, immaginando con creatività la sua ‘figura’ (sostanza, forma, immagine), il suo essere comunità fraterna in un preciso territorio, ricostruendo con pazienza il tessuto relazionale.

La parrocchia per svolgere la sua attività pastorale è chiamata a conoscere, a prendersi cura delle relazioni e della vita dei cristiani che compongono la comunità parrocchiale nella sua ordinarietà, per prendersi positivamente cura delle relazioni sociali.

La parrocchia è chiamata a favorire la costruzione della fraternità e della comunione attorno alla Parola, all’Eucaristia e alla Carità: la prassi pastorale deve tendere ad alimentare la vita di fede del credente attorno alla Parola, all’Eucaristia e alla Carità.

Costruire fraternità e comunità è un processo in costante divenire e comporta la quotidiana fatica di coltivare la comunione a tutti i livelli.

L’Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, a cura della Congregazione per il Clero, del 20 luglio 2020, affronta la questione della parrocchia tenendo conto di quello che la parrocchia è stata ed è, ma con una visione di prospettiva.

«L’appartenenza ecclesiale oggi prescinde sempre più dai luoghi di nascita e di crescita dei membri e si orienta piuttosto verso una comunità di adozione, dove i fedeli fanno un’esperienza più ampia del Popolo di Dio, di fatto, di un corpo che si articola in tante membra, dove ognuna opera per il bene di tutto l’organismo (cfr. 1 Cor 12, 12-27)» (n° 18).

«Le diverse componenti in cui la parrocchia si articola sono chiamate alla comunione e all’unità. Nella misura in cui ognuno recepisce la propria complementarità, ponendola a servizio della comunità, allora, da una parte si può vedere realizzato a pieno il ministero del parroco e dei presbiteri che collaborano come pastori, dall’altra emerge la peculiarità dei vari carismi dei diaconi, dei consacrati e dei laici, perché ognuno si adoperi per la costruzione dell’unico corpo (cfr. 1 Cor 12, 12)» (n° 28).

La parrocchia deve «avviare esperienze nuove, valorizzando la dimensione della comunione e attuando, sotto la guida dei pastori, una sintesi armonica di carismi e vocazioni a servizio dell’annuncio del Vangelo, che meglio corrisponda alle odierne esigenze dell’evangelizzazione» (n°1). Per questo «la comunità parrocchiale è chiamata a sviluppare una vera e propria “arte della vicinanza”» (n° 26) e a fare «un nuovo discernimento comunitario» (n° 10).

L’attuale fase storica ci obbliga a guardare avanti e, nello stesso tempo, ci dice di ritornare alle radici: due riferimenti che impediscono di non continuare come si è “sempre fatto” finora.

Continuare sulle vie percorse fino ad oggi, che sono state preziose in altre fasi storiche, è una forte tentazione, ma è un’operazione senza futuro e contro lo Spirito. «Non ricordate più le cose passate», diceva il profeta agli israeliti che rientravano dall’esilio e che abbiamo ascoltato domenica scorsa, «non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19).

Un po’ per paura delle novità e un po’ per pigrizia mentale, siamo portati a rimanere ancorati al passato, che è comunque il passato recente, senza rendersi conto che è cosa impossibile e senza futuro.

Se le nostre assemblee liturgiche sono di fatto svuotate, non è a causa della pandemia e neppure per la perdita di importanza della fede e della religione agli occhi di tante persone. La pandemia ha solo evidenziato o, al massimo, accelerato fatti irreversibili di cui dobbiamo tener conto.

Per questo, papa Francesco – ben prima della pandemia – ha chiesto a tutta la Chiesa «una conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno» (Evangelii gaudium 2014, n. 25).

«Si deve cambiare!», ha ripetuto con fermezza nel novembre 2014, parlando al Convegno sulla pastorale delle città, e poi nel novembre 2015, parlando alla Chiesa italiana riunita a Firenze.

Il «cambiamento di epoca» nel quale ci troviamo richiede un cambiamento della pastorale, così difficile eppure così necessario.

Quello attuale, più che essere il tempo del fare è il tempo dell’ascoltare. Ascoltare la parola di Dio e ascoltare la storia, con tutte le sue voci. Le persone e le situazioni vanno ascoltate. Il necessario discernimento va fatto confrontando le voci della storia con la parola di Dio.

La pastorale non può più essere fondata sui “grandi” numeri di una volta, ma sul «piccolo gregge» (cf. Lc 12,32), che non significa un gruppo insignificante di fedeli, ma neppure un’élite, un gruppo “scelto”.

Si tratta di un gruppo/comunità di persone motivate, aperte e creative. Persone disponibili a mettersi in gioco. Persone radicate nella propria vocazione battesimale, che si pongono come lievito di comunione, fraternità e solidarietà.

La comunità parrocchiale potrà anche essere il frutto di piccole comunità sul territorio, che nascono non intorno a specifici servizi, ma come “cellula” della comunità parrocchiale.

Piccole comunità diversificate per età e sensibilità, come in una famiglia, da cui il Vangelo si diffonde non per propaganda, ma per contagio o per irradiazione, grazie alla qualità della vita cristiana e delle relazioni.

La sfida è mantenere la viva l’interazione e la comunione dentro e fra questa varietà di comunità.

Una prima questione che si impone è la riscoperta della nativa responsabilità educativa che ogni credente ha nei confronti degli altri e soprattutto verso le nuove generazioni e verso il mondo.

La trasmissione della fede è la vera questione da porre al centro del cammino della Chiesa in questo nostro tempo, riservando una particolare attenzione alle nuove generazioni.

Il fossato che si sta creando tra il sentire, il pensare e il vivere della comunità cristiana e il mondo, particolarmente quello dei giovani, è sempre più largo.

Un ragazzo che ancora riusciamo a “trattenere” in parrocchia per gli incontri di catechismo fino alla comunione e, molto meno, fino alla cresima, il giorno dopo generalmente dice: “non mi vedrete più!”. Lo stesso ragazzo inserito in un percorso esperienziale, fatto anche di giochi, cultura, esperienze forti, momenti rilassanti, forse c’è una possibilità in più che, celebrato il sacramento, possa rimanere, grazie ai legami che sono nati.

Come dicevano nell’incontro scorso: un figlio non diventa adulto per le prediche dei genitori, ma perché vive con loro e perché impara dal loro stile di vita il modo di stare al mondo. Così le persone possono essere attratte da Cristo e maturare nella fede solo vedendo come la Parola di Dio agisce nella vita dei singoli e della comunità cristiana.

Non basta limitarsi a insegnare contenuti: è necessario diventare comunità e comunità educante. Si educa quando quel che si dice e quel che si fa è sempre pensato come vissuto nella relazione, sapendo che non ci sono riflessi solo sulla nostra vita, ma anche su quella degli altri.

La parrocchia è comunità educante se è la comunità il soggetto di ogni azione – almeno nella collegialità degli organismi di partecipazione –  e se il coordinamento delle varie attività e dei vari servizi non viene accentrato privatisticamente in una persona. Non dimentichiamo che il Signore Gesù manda i suoi discepoli due a due (cfr Mc, 6.7).

Don Momigli

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