Don Giovanni Momigli

Omelia domenica 7 luglio 2024

Quattordicesima  domenica Tempo Ordinario Anno B (Ez 2,2-5   Sal 122   2Cor 12,7-10   Mc 6,1-6)

Credere all’esistenza di Dio non è difficile. La difficoltà che la scrittura mette in luce sta nell’accogliere la sua Parola, nell’accogliere Dio nella sua costante novità.

La vocazione di Ezechiele è un esempio tipico. Il Signore chiama Ezechiele e lo invia a Israele ad annunciare la sua Parola: «Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro» (Ez 2,5).

È sempre Dio che prende l’iniziativa, è sempre lui che chiama, ma poi c’è la libertà umana: si può rispondere o non rispondere.

E c’è anche la debolezza umana di chi risponde alla chiamata di Dio e diventa annunciatore della sua parola: la forza della presenza di Dio è annunciata attraverso la debolezza di coloro che lo hanno accolto.

Il cristiano sa di essere limitato. Sa che la sua fede è sempre vacillante e che non potrà mai presentarsi agli altri come migliore di loro.

Chi crede in Gesù Cristo può solo mostrare con la sua vita che tutto è grazia e interrogarsi costantemente sulla sincerità della propria fede e del proprio progetto di vita, con piena fiducia nella misericordia di Dio.

L’iniziatica di Dio incontra sempre la persona nella sua libertà. Una libertà sulla quale comunque influisce la cultura del tempo e le convinzioni nella quale le persone sono radicate.

Nel brano del vangelo che la liturgia di oggi ci presenta viene messa in luce sia la sorpresa della gente di Nazaret, «molti, ascoltando, rimanevano stupiti» (Mc 6,1), sia la sorpresa di Gesù, per la rapidità con cui la gente passa in fretta dal fascino alla diffidenza e al rifiuto: «si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,6a).

Il rifiuto della gente di Nazaret ha molto a che fare con la tendenza a etichettare le persone in base ai nostri gusti e alle nostre preferenze, come ha detto Papa Francesco all’Angelus domenica scorsa.

Mettere etichette è una questione seria, tanto seria che etichettiamo anche con Dio. Pensiamo di conoscerlo in base all’idea, personale o anche collettiva, che abbiamo di lui, – ossia lo etichettiamo – e non gli permettiamo di sorprenderci.

Questo certamente avviene alle persone che vivono una fede stanca, ripetitiva, che hanno perso il senso della ricerca. Ma, più spesso, capita a chi si ferma a un’immagine convenzionale e impersonale di Dio.

Pensare che l’opera di Dio possa essere secondo i nostri schemi e da noi controllabile, rappresenta un rilevante ostacolo all’accoglienza della rivelazione che Dio fa di sé stesso.

L’ostacolo all’accoglienza di Gesù da parte dei suoi compaesani è dato proprio da ciò che già conoscono di lui: Gesù è uno di loro e, illusoriamente, credono di sapere tutto di lui.

Incasellare Gesù in quello che già sanno, o pensano di sapere, rappresenta la loro rovina, perché si chiudono ad ogni altra possibilità. Tanto che a Nazaret Gesù, per la loro incredulità, «non poteva compiere nessun prodigio» (Mc 6,5).

La vicenda di Nazaret è un insegnamento significativo e prezioso anche per noi, non solo per il nostro rapporto con Dio, ma anche per il rapporto con noi stessi e con gli altri.

Non possiamo identificarci solo con ciò che già conosciamo di noi stessi né etichettare l’altro per quello che sappiamo. Nei fatti, è difficile anche affermare con sicurezza di conoscere interamente una persona che si ama. Col passare del tempo, nelle differenti situazioni dell’esistenza, ogni persona continua a scoprirsi e rivelarsi.

Non c’è nulla di più pericoloso per la fede che l’illusione di sapere tutto, di non aver più nulla da apprendere, di non dover più crescere.

Vorremmo essere confermati nelle nostre idee e nelle nostre sicurezze, ma questo è alternativo all’autenticità della fede.

La chiusura nelle nostre sicurezze è un ostacolo a lasciare che Dio operi in noi in modo nuovo. Ma Dio entra nella normalità della nostra vita proprio per scuoterla e rinnovarla

Don Momigli

condividi questo post

Facebook
Twitter
Pinterest