Don Giovanni Momigli

Omelia domenica 7 aprile 2024

Seconda domenica di Pasqua: (At 4,32-35   Sal 117   1Gv 5,1-6   Gv 20,19-31)

Cristo Risorto è Gesù di Nazaret, il Crocifisso, ma non è più lo stesso. Non lo si può riconoscere con i criteri puramente umani, come lo si era conosciuto prima della sua passione e morte.

Tanto meno si può riconoscere il Risorto se guardiamo a lui come proiezione dei nostri desideri, delle nostre aspettative, della nostra idea di Dio, come avevano fatto i discepoli durante la sua vita terrena: «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele» (Lc 24,21).

Gesù risorto oltrepassa tutti i limiti umani e i discepoli non trovano parole adeguate a descrivere l’esperienza fatta durante le sue apparizioni.

L’unico riferimento per il riconoscimento e per trasmettere l’esperienza sono i segni della crocifissione, che Gesù mostra ai discepoli riuniti nel Cenacolo – «mostrò loro le mani e il fianco.» (Gv 20,20) – e che Tommaso, assente alla venuta del risorto, chiederà di vedere e toccare: se non vedo non credo, se non tocco non credo, se non faccio esperienza diretta non potrò mai credere a una cosa così straordinaria.

Tommaso incarna quella parte di noi che non accetta ciò che non è evidente, spiegabile, dimostrabile: di fronte a una testimonianza che viene dagli altri e che esige la fede, proclama la libertà e il diritto di voler vedere e toccare.

La vicenda di Tommaso è però più complessa. Peraltro il vangelo non dice che Tommaso tocca realmente, quando Gesù si presenta di nuovo in mezzo ai discepoli la settimana successiva: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20,27).

Tommaso vede e crede: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,27). La fede si mostra, ma non si dimostra. È vero che Tommaso vede le ferite del crocifisso risorto, ma è altrettanto vero che il suo atto di fede va oltre quello che vede: in Gesù risorto riconosce Dio.

Nessuna verifica può sostituire l’atto di credere, che va oltre quello che si vede: non è un fatto automatico e immediato o demandato alla sola ragione.

Nella vita reale non ci sono automatismi: non si crede senza una qualche esitazione, non si ama pigiando un pulsante. Tutto passa attraverso dubbi, domande e incertezze.

La fiducia è frutto di un cammino che passa anche attraverso vie secondarie, smarrimenti e ritorni: un cammino che si fa senza aver tutto chiaro, rischiando.

Tutti i racconti delle apparizioni del Risorto descrivono i discepoli che sperimentano la fatica di credere, presi dalla paura e dal dubbio. Il dubbio e la paura, di solito, frenano i nostri slanci, anche quelli affettivi, spirituali e di fede.

Il brano del vangelo di questa domenica condensa questa paura attraverso l’immagine delle porte chiuse del Cenacolo, «per timore dei Giudei» (Gv 20,19), proprio mentre la pietra del sepolcro di Gesù è stata rotolata e il sepolcro vuoto è diventato spazio aperto, di vita e di fede: «entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20,8).

Gesù supera ogni porta per stare fra e con i suoi (cfr Gv 20,19). L’esperienza della fede è personale, ma accade in un contesto comunitario e vive in un cammino comunitario. Lo stesso Tommaso incontra il Signore risorto solo la settimana dopo, quando è presente con la comunità riunita.

L’evangelista Giovanni, infatti, narra due apparizioni di Gesù risorto nel Cenacolo, avvenute in giorni diversi, ma entrambe il primo della settimana (Gv 20,19.26).

Questo giorno, lo stesso in cui è stato trovato il sepolcro vuoto, (cfr Gv 20,1), resterà il giorno in cui i cristiani si ritrovano attraverso i millenni per costituirsi e consolidarsi nella comunità del Risorto.

In una fase storica come quella attuale, caratterizzata da una profonda crisi di socialità, la celebrazione del giorno del Signore, che ci rende comunità del Risorto, ci spinge in modo tutto particolare a rifondare il tessuto connettivo delle nostre comunità cristiane, per dare vera «testimonianza della risurrezione del Signore Gesù» (At 4,33) e per diventare seme di una socialità nuova nel contesto in cui viviamo.

Don Momigli

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