Don Giovanni Momigli

Omelia domenica 6 luglio 2025

XIV domenica tempo ordinario anno C (Is 66,10-14   Sal 65   Gal 6,14-18   Lc 10,1-12.17-20)

Come abbiamo udito dal brano del Vangelo, Gesù designa «altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1).

Il numero settantadue è simbolico: probabilmente ricorda il numero dei popoli del mondo che, secondo il libro della Genesi, popolavano la terra. Come dire: un discepolo per ogni popolo che c’è al mondo, perché a tutti deve arrivare l’annuncio che il regno è vicino, che Dio è già presente ed è possibile vivere con una diversa prospettiva e in modo differente.

Nell’inviare i discepoli Gesù da loro indicazioni precise, che bene esprimono la postura esistenziale e le caratteristiche relazionali che il discepolo deve assumere per svolgere la missione che gli è stata affidata.

Anzitutto chiede loro di pregare: la missione si basa sulla preghiera.  Una preghiera che non si limita a guardare le proprie necessità, ma che allarga lo sguardo e il cuore. La preghiera è veramente cristiana se ha anche una dimensione universale che tiene conto dei bisogni di tutti, iniziando dal fondamentale bisogno che ciascuno ha di essere raggiunto dall’annuncio del Vangelo. Pertanto, il primo atto della missione è pregare il “padrone della messe”, ossia Dio Padre, perché mandi operai a lavorare nel campo del mondo.

Solo dopo aver chiesto di pregare, Gesù dice loro: Andate! E poi: non portate borsa né sacca…dite: “Pace a questa casa”…restate in quella casa…Non passate da una casa all’altraguarite i malati e dite loro: “è vicino a voi il Regno di Dio”; se non vi accolgono, uscite sulle piazze e congedatevi (cfr Lc 10,2-10).

Tutti gli imperativi usati da Gesù mostrano che la missione è data dalla preghiera; è itinerante; esige distacco e povertà; porta pace e guarigione, che sono segni della vicinanza del Regno di Dio; non è proselitismo ma annuncio e testimonianza; richiede anche la franchezza e la libertà evangelica di andarsene, evidenziando la responsabilità di aver respinto il messaggio della salvezza, ma senza condanne e maledizioni.

Il discepolo non può essere contro nessuno, neppure di chi è avverso, perché non sono le argomentazioni che porta ad annunciare Gesù Cristo, ma il suo vivere la gioia del Vangelo, il suo testimoniare l’immenso amore di Cristo, morto sulla croce per tutti.

La croce ci ricorda che l’amore per gli altri è esigente e richiede sacrificio, perché nasce dall’amore con il quale il Signore che ha dato la vita per noi.

L’intero brano trasmette una condizione di gioia. Gioia che i settantadue discepoli sperimentano nell’essere inviati, nel vivere l’incontro con le folle, nel compiere le azioni che il Maestro ha compiuto per primo.

Mentre esprimono la gioia per ciò che hanno sperimentato, Gesù ne annuncia loro una più grande: i loro nomi sono scritti in cielo, i loro nomi sono scritti nel cuore di Dio.

Troppo spesso, nella nostra vita di cristiani, sembra che la gioia sia un lusso che non tutti possono permettersi. Eppure, per un credente la gioia dovrebbe essere una costante, il timbro indelebile della vita del discepolo impresso dalla relazione col Signore.

Per testimoniare che la vita è un bene prezioso e che vale la pena di essere vissuta, la gioia è l’atteggiamento più potente, anche se a volte la chiamiamo felicità o realizzazione di sé.

L’incontro con Gesù Cristo non cambia il dolore in gioia o la fatica in riposo, ma ci fa vedere tutto in una diversa prospettiva, ci apre un nuovo orizzonte, e ci consente di vivere anche le ombre della vita con la luce di un’interiorità piena di gioia.

Don Momigli

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