Sesta domenica di Pasqua anno B (At 10,25-27.34-35.44-48 Sal 97 1Gv 4,7-10 Gv 15,9-17)
La fede è un dono, ma per accoglierlo bisogna essere disponibili a lasciarsi guarire dalle ferite della sfiducia, dalle ferite generate dai tradimenti, dalle ferite della delusione; non ci si deve chiudere in sé stessi, ma mettersi in gioco per gli altri.
Neppure i discepoli sono arrivati subito a credere: hanno avuto bisogno di fare un cammino, che non è stato uguale per tutti.
Come loro, ciascuno di noi, a partire dalla propria storia e dalla propria situazione, è chiamato a percorrere la sua strada, fatta di domande e di scoperte.
Un cammino va fatto anche per vivere il comandamento dell’amore, che non è un sentimento passeggero o frutto della sola nostra volontà. La vita cristiana è possibile perché Dio ci ha amato per primo: ci ha fatto conoscere il suo amore mandandoci il Figlio, che a sua volta ama i suoi fino a donare la vita.
Non basta dire amore. Quello che chiamiamo amore è un’esperienza sempre esposta all’equivoco: può avere tante sfumature, essere espressa in molteplici modi e ognuno è portato ad assolutizzare il proprio modo di intendere e di vivere l’amore. Con l’amore si motivano scelte molto diverse e anche opposte.
L’apostolo Giovanni, sia nel vangelo che nelle sue lettere, traccia alcune coordinate che chiariscono la specificità dell’amore cristiano e il suo significato autentico, perché non è un semplice ideale umanitario, altruistico, solidaristico.
Giovanni ci dice, anzitutto, che l’amore di Dio si manifesta nella storia e, specificatamente, in un evento che i testimoni hanno visto con i loro occhi, toccato con le loro mani, udito con i loro orecchi: il Verbo della vita, che si è fatto carne.
Gesù parla di comandamento nuovo, non perché prima non ci fosse il comandamento di amare. Al tempo di Gesù, l’amore per il prossimo, compreso il nemico, è presente nell’ebraismo (cfr Dt 22,1-4) e, in modi diversi, anche in altre religioni e filosofie.
L’amore di cui parla Gesù, però, ha per modello l’amore del Padre per il Figlio e quello del Figlio per noi: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15,9). La novità del comandamento, quindi, consiste nel suo fondamento, che Dio, e nella sua modalità: «come io ho amato voi» (Gv 15,12).
Questo comandamento dell’amore, che impegna totalmente intelligenza e volontà, forza e cuore, è posto come caratteristica essenziale dei discepoli di Cristo: «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).
I discepoli di Gesù di ogni tempo, come i primi discepoli, sono prescelti, trattati da amici, amati incondizionatamente e “costituti” per una missione feconda (cfr Gv 15,16): riconosciuti capaci di reciprocità, responsabilità, autodonazione e di amore.
L’unione con Cristo crea un vincolo tra fratelli che confluisce e si esprime nella concretezza della comunione. Sulla base di questo amore è possibile vivere delle relazioni significative, capaci di attrarre anche chi sta a guardare. La comunità diventa in tal modo la nuova modalità di relazione tra i discepoli del Signore.
Le letture di questa domenica disegnano comunità cristiane che sanno riconoscere e accogliere l’amore di Dio. Comunità non necessariamente numerose: Oggi diremmo: non coincidenti con la popolazione residente nell’ambito geografico di una parrocchia.
Quelle di cui parla la Scrittura sono comunità che tengono fisso lo sguardo su Cristo, dove ogni vocazione ed esperienza scopre e valorizza la propria specificità solo nell’interazione con le altre e nel costruire insieme il volto stesso della comunità: un volto non autoreferenziale e settario, ma aperto e inclusivo.
La storia di questi duemila anni di cristianesimo ci parla di persone che hanno scritto pagine di scelte profetiche, per la chiesa e per il mondo, proprio perché hanno concretamente accolto il comandamento di Gesù e hanno saputo vivere la comunione anche in situazioni complesse e ostili.
Queste esperienze ci dicono che le comunità che davvero riconoscono e accolgono l’amore di Dio, sono costituite da persone aperte all’azione dello Spirito, che vivono la comunione, che non stanno chiuse in ambienti protetti ma si mettono in gioco per costruire una società migliore, più a misura di persona umana.