Domenica Tredicesima Tempo Ordinario anno B (Sap 1,13-15; 2,23-24 – Sal 29 (30) – 2Cor 8,7.9.13-15 – Mc 5,21-43)
Prima o poi capita a tutti di domandarsi cosa significa credere davvero. Un aiuto per approfondire questa domanda, ci viene da due diverse esperienze narrate dall’evangelista Marco, che la liturgia di questa domenica ci presenta.
Due realtà e due atteggiamenti di fede molto diversi tra loro: un capo della sinagoga che pubblicamente si getta ai piedi di Gesù, supplicandolo di salvare la figlia morente; una donna emarginata dal convivere sociale e religioso, a causa di una malattia considerata impura, che si vergogna a chiedere direttamente a Gesù ed è mossa dalla convinzione che basti toccarlo per venire guarita.
Due persone che, ciascuna nella propria particolarità, vivono una grande sofferenza e che si rivolgono a Gesù con la disperazione di chi non trova vie d’uscita al proprio dramma: la propria malattia logorante; la malattia mortale della propria figlia.
Rivolgersi a Gesù, anche quando siamo mossi da un profondo bisogno esistenziale, è sempre un atto di fede e non ha niente di superstizioso o miracolistico.
Superstizione e ricerca quasi compulsiva del miracoloso, infatti, hanno come obiettivo il prodigio o l’effetto che si attende, mentre la fede è abbandono fiducioso alla volontà di Dio.
La fede in Gesù consiste nel mettere nelle sue mani la nostra intera esistenza e nell’assumere la sua parola come bussola della propria vita.
La fede in Gesù è anche difficile e faticosa. Pensiamo a Giairo che viene raggiunto dalla notizia che la figlia era morta mentre, con Gesù, sta andando a casa pieno di speranza. Nonostante tutto sembri perduto, Giairo continua a camminare verso casa avendo nel cuore le parole di Gesù: «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc 5,36).
A differenza del capo della sinagoga, la donna affetta da «aveva perdite di sangue» (Mc 5,25), non si getta ai piedi di Gesù per invocare la guarigione, forse anche per la vergogna di una malattia che la rende impura. Occorre comunque tener presente che i vangeli narrano di una sola donna, per altro cananea, che chiede direttamente aiuto a Gesù.
Nella folla che segue Gesù molti lo toccano e lo sfiorano, ma tutto rimane anonimo. Quello della donna che tocca il mantello di Gesù, però, è un gesto pieno di intenzionalità e non rimane anonimo.
Il tocco disperato della donna è avvertito da Gesù: si ferma e incoraggia a presentarsi chi lo ha consapevolmente toccato. Il coraggio della donna viene valorizzato: «gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità» (Mc 5,33). Gesù le fa anche capire che è stata la sua stessa fede a guarirla: «Figlia, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34).
Questa pagina di Marco ci parla di come Gesù accosta le persone rispettando la particolarità di ciascuna e ci insegna lo stile con cui anche noi siamo chiamati a stare accanto agli altri, specialmente a chi soffre.
Gesù, ad esempio, rispondendo alla richiesta di un padre preoccupato per la vita della figlia ne rispetta l’intimità: evita la spettacolarizzazione del dramma. Con delicatezza prende per mano la bambina e, una volta richiamata alla vita, l’affida ai suoi preoccupandosi che gli venga dato da mangiare.
Con i suoi gesti e le sue parole ci insegna a rispettare ogni dolore; a guardare ad ogni persona tenendo conto della sua storia; a entrare con delicatezza nell’intimità degli altri; ad essere sensibili a ogni relazione ferita.
Non si può giudicare una sofferenza, fare confronti sterili, offrire ricette preconfezionate. Siamo invece chiamati a stare accanto a chi soffre, per cercare insieme le vie di uscita o le modalità per lenire il dolore.
Tutti attraversiamo situazioni più o meno difficili, momenti in cui non ci sentiamo ascoltati o compresi, fasi di scoraggiamento o in cui temiamo di non farcela a superare la condizione in cui ci troviamo.
Il capo della sinagoga e la donna con la perdita di sangue, pur partendo da situazioni differenti e andando da Gesù con modalità diverse, ci dicono che Gesù ci accoglie così come siamo e che in lui possiamo trovare la forza per riprendere in mano la nostra vita e renderla dono per gli altri.