XXX domenica Tempo Ordinario anno C (Sir 35,15-17.20-22 Sal 33 2Tm 4,6-8.16-18 Lc 18,9-14)
La conosciutissima parabola del fariseo e del pubblicano che vanno al tempio a pregare, presentata dal brano del vangelo di questa domenica, ci pone di fronte alla verità di Dio e alla verità di noi stessi. E ci fa riflettere ancora una volta sulla preghiera, che è uno dei temi cari all’evangelista Luca.
È tipico del linguaggio delle parabole esasperare il protagonista negativo per creare simpatia per quello che deve divenire il modello nell’agire, per quanto in questo caso si debba andare nel profondo per capire in che senso un pubblico peccatore possa essere considerato un modello.
Due uomini profondamente diversi vanno nello stesso tempio a pregare. Uno è un fariseo molto religioso e osservante della legge; l’altro è un pubblicano, ossia un giudeo al servizio dell’occupante romano, un collaborazionista che riscuote le tasse per conto dei romani.
Se Gesù avesse fatto un sondaggio sul gradimento fra coloro che stavano ad ascoltarlo, la vittoria schiacciante sarebbe andata al fariseo, non certamente al pubblicano.
Gesù entra dentro l’anima di chi prega e ne svela le intenzioni nascoste e questo sconvolge ogni sondaggio e conduce a un finale a sorpresa. Dio ribalta completamente il giudizio degli uomini: vede le cose in modo del tutto diverso, perché legge nel profondo dei cuori, e la sua reazione alla preghiera dei due è molto diversa da quella che ci si attenderebbe.
L’evangelista chiarisce subito che Gesù racconta questa parabola per quanti hanno la presunzione di essere giusti e che disprezzano gli altri; per le persone che confondono la necessaria autostima con la presunzione di essere sempre nel giusto; per coloro che dall’alto del loro piedistallo ritengono gli altri un nulla, come indica il significato letterale del verbo greco tradotto con disprezzare.
Con la sua preghiera il fariseo sembra ringraziare Dio, ma in realtà sta elencando al cospetto di Dio i suoi presunti meriti, quello che lui fa per Dio: le sue preghiere e i suoi atti di carità. Non ringrazia Dio per quello che Dio ha fatto per lui, ma per quello che lui ha fatto per Dio.
La preghiera del fariseo è sincera e rivela il suo cuore: le cose che elenca lui fa davvero. Questo mette in luce che c’è differenza fra sincerità e verità e ricorda che l’esistenza rimane ostinatamente chiusa a un amore che chiede solo di essere accolto, indipendentemente da ogni nostro presunto merito.
L’idea che il fariseo coltiva nel suo cuore è quello Dio che non disturba, perché non chiede di cambiare, e che adotta una logica mercantile, contabilizzando i supposti “meriti” dell’uomo.
La preghiera del fariseo non è servita a niente, perché è una non-preghiera: è una sorta di autocelebrazione, che non conduce da nessuna parte se non a disprezzare gli altri, soprattutto i peccatori, come il pubblicano che si trova dietro di lui.
Il pubblicano viene lodato per la preghiera fatta in verità, non certamente per quello che ha commesso: l’ingiustizia e i soprusi da lui compiuti sono evidenti e gravi e rimangono tali.
La preghiera del pubblicano dice che nel cuore di quest’uomo c’è la consapevolezza che il proprio comportamento è sbagliato e di essere bisognoso di tutto, come emerge dal suo atteggiamento e dalle su parole: «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”» (Lc 18,13).
Per Gesù non si è giusti per i propri meriti, ma si è resi giusti da Dio. Per questo il pubblicano: «a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).
Occorre tenere ben presente che Dio non chiede l’umiliazione data dagli atteggiamenti e dal crudele giudizio di altri, che ferisce e mortifica. L’umiliazione non è evangelica, anche se il Vangelo insegna come viverla. Basta pensare all’atteggiamento di Gesù che, dopo aver ricevuto lo schiaffo dalla guardia nel sinedrio nel contesto della Passione, risponde con parola ferma (cf. Gv 18, 23).
Dio chiede l’umiltà, data dalla consapevolezza che la vocazione viene dal cielo e punta al cielo e della scelta di viverla tenendo i piedi ben piantati a terra, coscienti dei propri limiti e delle proprie contraddizioni, ma aperti all’azione di Dio che ci chiede di mettere in gioco le nostre capacità e caratteristiche per il bene di tutti.