Don Giovanni Momigli

Omelia domenica 23 marzo 2025

Terza domenica di Quaresima anno C (Es 3,1-8.13-15   Sal 102   1Cor 10,1-6.10-12   Lc 13,1-9)

Ogni volta che ascoltiamo o leggiamo la Bibbia è bene tener presente che tutto è stato scritto «per nostro ammonimento» (1 Cor 10,11), come dice la seconda lettura. Principio presente anche nella lettera ai Romani: «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Rm 15.4).

Alla luce di queste parole, appare chiaro che il racconto della vocazione di Mosè, narrato dalla prima lettura, parla anche di noi. Ed ha qualcosa da dire anche a noi la parabola del fico che stenta a produrre frutti, raccontata da Gesù nel Vangelo, perché richiama anche a tante sterilità della nostra vita.

Le letture di questa terza domenica di Quaresima, per parlare della misericordia di Dio e della necessità della nostra conversione, mettono in luce come il Dio biblico non può essere confuso con una delle tante immagini del divino che sono state e vengono venerate dalle donne e dagli uomini di tutti i tempi.

La prima lettura ci riporta un passo fondamentale dell’Antico Testamento, tratto dal capitolo tre del libro dell’Esodo: presso il monte Sinai (Oreb) Mosè ha il suo primo incontro con Dio nel simbolo del roveto ardente, un fuoco che bricia ma non si consuma.

Su richiesta di Mosè, Dio presenta sé stesso dicendo: «Io sono colui che sono!» (Es 3,14). In realtà l’espressione è intraducibile. Parafrasandola potremmo dire: «Io sono, io c’ero, io ci sarò»; sono quello che è sempre presente.

Il Dio biblico non è un’entità anonima, un idolo a cui si paga di tanto in tanto un pedaggio, soprattutto in caso di bisogno, ma Colui che ha un nome: si fa conoscere, si può interpellare, con lui è possibile dialogare.

Il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, chiede una relazione autentica, che continua nel tempo: partecipa alla nostra esistenza, alle nostre gioie, alle nostre pene, alle nostre difficoltà.

La sua presenza deve essere cercata nell’avventura della vita di ciascuno e nella storia complessiva dell’umanità.

Un’ulteriore purificazione dell’idea di Dio è compiuta da Gesù nel Vangelo. Liberando Dio da responsabilità che gli vengono impropriamente attribuite, Gesù propone un atteggiamento diverso, uno sguardo nuovo su una questione sempre attuale: la disgrazia è punizione divina in conseguenza di un peccato?

Facendo riferimento al massacro di galilei nel Tempio, per ordine di Pilato, e al crollo di una torre che ha provocato la morte di diciotto persone, Gesù rovescia il modo di vedere della gente, traendone un insegnamento.

Ricorda che ognuno è peccatore ed ognuno è chiamato a convertirsi, aprendosi al dono di Dio, che fa sempre il primo passo verso ogni persona.

La parabola del fico rafforza la necessità di convertire lo sguardo con cui si guarda a Dio. Dio è il padrone della vigna, ma lascia all’uomo la sua libertà e si mostra di un’infinita pazienza.

La pazienza di Dio, tuttavia, non giustifica la pigrizia spirituale, ma accresce il nostro impegno a corrispondere a questa misericordia con sincerità di cuore.

Ognuno deve sentirsi interpellato a una profonda revisione della propria vita, del proprio modo di pensare e di agire.

La parola di Dio ci sollecita a leggere gli avvenimenti che ci riguardano e che accadono intorno a noi alla luce della fede, ricordando che Dio agisce nella storia attraverso di noi, come accade a Mosè che, dopo aver incontrato Dio, viene inviato in Egitto per liberare i fratelli, e come accade per il contadino della parabola che intercede per rimandare la soppressione del fico.

Dio agisce mandando qualcuno sulla nostra strada e chiamando noi a incontrare altri sulla strada che stanno percorrendo.

Quello che è decisivo non è aver partecipato ad eventi miracolosi, ma piuttosto aver cambiato la propria vita. Ecco perché san Paolo dà a tutti un avvertimento di cui dobbiamo fare tesoro: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1 Cor 10,12).

Don Momigli

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