Venticinquesima domenica Tempo Ordinario anno B: (Sap 2,12.17-20 Sal 53 Giac 3,16-4,3 Mc 9,30-37)
Ciascuno di noi , in modo più o meno forte, è accompagnato dalla costante preoccupazione per sé stesso, dalla tentazione di mettersi al centro dell’attenzione e di porsi in competizione con gli altri.
E quando ci si pone in competizione nascono invidie e gelosie e pure la diffamazione e la malvagità se e quando servono a farci primeggiare e fare quel che a noi pare essere il nostro interesse: «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni» (Sap 2,12).
La cultura nella quale viviamo ci dice proprio questo: se non emergi non vali niente. Non serve molta immaginazione per arrivare a capire che «dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni» (Gc 3,16). E che questo genera divisione, assecondando il divisore per eccellenza: il diavolo, satana.
La competizione, generalmente, non viene intesa come un concorrere allo stesso obiettivo sviluppando i propri talenti e l’efficienza, ma come concorrenza tesa ad eliminare il concorrente.
Platone, nel Fedro, scrive: Il solco sarà diritto, e perciò il raccolto abbondante, se i due cavalli che trainano l’aratro procedono alla medesima andatura. Se uno procede più veloce dell’altro, il solco andrà a destra o a sinistra – nell’antica Grecia l’aratro era tirato dai cavalli e non dai muli.
Nella prima lettura domina l’opposizione di giusto ed empio, il contrasto tra pensieri e azioni, tra presente e futuro, tra desiderio e rivalsa, tra violenza e mitezza. Mentre nella seconda, l’apostolo Giacomo sottolinea il confronto tra disordine e pace, tra sapienza e passioni insensate.
Il Vangelo, invece, svela l’incomprensione dei discepoli delle parole di Gesù e il loro rivaleggiare per i primi posti.
Gesù conosce bene questa tendenza del cuore umano, tanto che non rimprovera gli apostoli per aver «discusso tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,34), nonostante ne avessero parlato subito dopo – se non durante – il suo secondo annuncio della passione.
L’evangelista, quasi come per giustificare la profonda contraddizione del loro atteggiamento con le parole di Gesù sul suo immediato futuro, nota che non capivano quello che diceva «e avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,32).
Gesù non rimprovera gli apostoli ma, in un certo senso, asseconda il bisogno di primeggiare che portiamo dentro, indicando una via apparentemente in contraddizione: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35).
Queste parole di Gesù vanno bene interpretate, altrimenti può avvenire che uno si mette a servire con la finalità, conscia o inconscia, di primeggiare. E, allora, il servire diviene un modo per essere al centro dell’attenzione ed esaltati, come spesso avviene anche nei nostri ambiti ecclesiali.
Chi vuole essere grande, deve servire gli altri, senza servirsi degli altri. Servire significa, primariamente, avere cura di coloro che sono fragili nella famiglia, nella società, nella Chiesa, senza temere di mostrare la propria fragilità e debolezza. Significa guardare il volto del fratello e della sorella che abbiamo davanti, con umiltà e dolcezza.
Il vero servizio non è né può mai essere ideologico, dal momento che non si servono idee, ma persone. «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37).
Il bambino era il simbolo della piccolezza, di colui che non contava nulla tra i “grandi” della casa e che non poteva ricambiarti in nessun modo. Oggi, data la eccessiva centralità che è stata data ai bambini anche nel decidere tempi e momenti, forse Gesù farebbe un altro esempio, portando all’attenzione chi davvero non conta nulla.
Se desideriamo agire, parlare, costruire secondo Dio, dovremo necessariamente prima accoglierlo nella sua venuta. Come ci insegna Gesù, possiamo iniziare dai piccoli. Accogliere le persone più piccole e prendersene cura. Ma accogliere anche le piccole cose, le piccole idee, i piccoli pensieri.
Gesù ci invita a cambiare lo sguardo su di noi e sugli altri e ci dice che la vera saggezza consiste nella decisione di donare la propria vita: chi perde la propria vita per il Regno guadagna in pienezza di vita. Ma la vita per il Regno si può perdere solo con e nella fede.
E la fede è propriamente uno stile di stare al mondo, di interpretare la vita, di dare intensità, sapore e senso all’intera esistenza.