Don Giovanni Momigli

Omelia domenica 21 aprile 2024

Quarta domenica di Pasqua anno B (At 4,8-12   Sal 117   1Gv 3,1-2   Gv 10,11-18)

Nel brano del Vangelo di Giovanni che la liturgia ci offre in questa quarta domenica di Pasqua, Gesù presenta sé stesso, attraverso un’immagine che esprime la sua identità, la sua attività e anche le motivazioni che lo muovono e lo porteranno a donarsi in modo totale: «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11).

Evocare il nome e i gesti del pastore significa entrare immediatamente dentro il linguaggio della gente alla quale Gesù sta parlando, certo di essere capito sul piano dell’esperienza e su quello religioso.

L’immagine del buon pastore si riferisce alla vita quotidiana del tempo, ma richiama e porta con sé forti riferimenti alla scrittura, come, ad esempio, al capitolo trentaquattro del profeta Ezechiele e al Salmo 23: «Il signore è mio pastore, non manco di nulla…» (23,1).

Ogni gregge è un insieme variegato. Accanto alle pecore grasse e sane, ci sono quelle fragili, quelle zoppicanti, quelle ferite dall’attacco di lupi o di cinghiali. E ci sono gli agnellini.

Gesù parla di pastori e mercenari. Il termine mercenario indica qualcuno che svolge un compito per un certo vantaggio. Perfino il bene può essere fatto per un vantaggio, come i riconoscimenti che ne provengono o per la propria “soddisfazione” spirituale.

Anche un mercenario può guardare e guidare un gregge, ma non può essere pastore e accudire con la passione necessaria tutto il gregge.

Il mercenario, ad esempio, è più simile a un medico o un infermiere che, pur facendo bene il proprio lavoro, mancano di quello sguardo che fanno sentire al malato che ci si prende cura di lui. Ricordo bene, quando sono stato in terapia intensiva senza poter parlare a causa di una tracheotomia, che la differenza fra un operatore sanitario e l’altro stava proprio nello sguardo, non solo nella mano.

Il buon pastore, invece, è colui che non si limita a trarne un vantaggio, ma svolge il suo compito con passione: conosce le sue pecore, sviluppa la capacità di custodire l’intero gregge, allarga il suo sguardo per accogliere tutte le pecore e guidarle.

La similitudine di Gesù con i buoni pastori, però, finisce qui. Il cuore dell’identità unica e straordinaria di Gesù, ripetuta per cinque volte, consiste nel fatto che lui è il buon pastore che dà la propria vita per le pecore.

L’amore che caratterizza Gesù buon pastore è un amore totale e questo suo amore è il motivo per cui le pecore ascoltano la sua «voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 11,16).

Per essere gregge di Cristo è indispensabile ascoltare la sua voce e vivere una comunione viva di cuore e di pensiero, ma non significa affatto diventare un gruppo di gregari anonimi.

Potremmo dire che ogni credente in Cristo è “pecora unica”, ma che non vive solitaria bensì in un ovile aperto. Pecora unica che Gesù chiama per nome e che non vive legata a una struttura, ma a una presenza: quella del buon pastore.

La necessità di ritrovare una comunione di cuore, di riferimenti e orizzonti comuni, è una necessità non solo della Chiesa ma anche della società, che sembrano aver perduto il senso e l’importanza della socialità.

Quella che stiamo vivendo è davvero una crisi profonda della dimensione sociale, che coinvolge tutti gli ambiti e tutte le strutture comunitarie, iniziando dalla famiglia, a causa del crescente individualismo.

Il diffondersi dell’individualismo non ha affatto prodotto una maggiore maturità, come molti avevano pronosticato, ma una diffusa infantilizzazione, rendendo le persone individui sempre meno capaci di gestire una libertà che non sia solo consumo individualistico, ma anche “impresa relazionale”.

Per superare, come Chiesa, questa marcata tendenza individualistica – palpabile nel modo con cui si partecipa alla preghiera liturgica, nello svolgimento di molte opere di bene e nell’evidente ritrarsi dalla dimensione sociale dei praticanti – è necessario ricostruire il tessuto relazionale delle nostre comunità cristiane.

Per ricostruire le relazioni comunitarie appare decisivo rimettere al centro Cristo buon pastore e far crescere il senso di appartenenza all’unico gregge.

Per ricostruire le relazioni comunitarie appare decisivo rimettere al centro Cristo buon pastore e far crescere il senso di appartenenza all’unico gregge. Mettere Cristo al centro impegna a stare insieme, a sentirci parte di un unico disegno che ci sorpassa e a diventare strumenti vivi del suo amore, costruendo dinamiche di prossimità, di fraternità e di comunione.

Don Momigli

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