Ventesima domenica Tempo Ordinario Anno B (Pr 9,1-6 Sal 33 Ef 5,15-20 Gv 6,51-58)
L’immagine del pane ci ricorda che siamo fragili, che abbiamo ogni giorno bisogno di cibo. E la fame ci ricorda che non siamo indipendenti, che abbiamo comunque bisogno di coloro che producono il nostro nutrimento.
Per una vita che abbia senso, però, non basta un qualsiasi nutrimento e non si tratta solo di nutrirsi: per dar vita e rafforzare la relazione e l’amicizia, il pasto va consumato nella convivialità.
Il Libro dei Proverbi e il Vangelo ci parlano proprio della convivialità del pasto e del vero pane che nutre la nostra esistenza. Prestare ascolto a quanto queste letture ci dicono, è un modo concreto per far nostro il monito che l’apostolo Paolo rivolge agli Efesini: «Fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi» (Ef 5,15).
Per non comportarsi da stolti, la prima cosa da fare è accogliere l’invito che la Sapienza rivolge all’intera umanità, di cui parla la prima lettura. La Sapienza imbandisce un banchetto, simbolo di comunione e intimità, e invita gli inesperti e i poco assennati, offrendo loro la possibilità di cambiare gustando i suoi cibi: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Pr 9,6).
E poi, come rivela Gesù nel vangelo, occorre prendere coscienza che l’alimento essenziale per nutrire la nostra esistenza – e quindi anche la fede, l’amore e la nostra speranza – è costituito dalla parola di Gesù e dal cibarsi di lui: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51).
Il banchetto eucaristico che noi celebriamo è composto di due portate fondamentali: la parola e il corpo di Cristo. Sono le due mense della Chiesa. Da sempre, la celebrazione è costituita da due mense riunite: la mensa della parola e la mensa del pane; la mensa della Scrittura e quella del Corpo di Cristo. È sempre lo stesso nutrimento, che ci è dato in due modi diversi. È lo stesso Cristo che si dona a noi come Parola e come Pane di vita.
Di fronte a un linguaggio duramente realistico – Gesù parla di mangiare la sua carne e di bere il suo sangue – i Giudei pongono una questione che sul piano razionale ha una sua comprensibilità: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Gv 6,52). Non potevano certo comprendere, senza fare il salto della fede, il mistero a cui Gesù si riferisce.
Si tratta del corpo e del sangue, ossia della persona, del Signore risorto, come ribadiamo ad ogni celebrazione eucaristica: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».
Non c’è solo l’’incredulità dei Giudei. Oggi, in molti praticanti assidui, c’è l’incredulità nascosta dietro una certa indifferenza: si partecipa alla Messa ma non ci si comunica. E c’è l’incredulità che si nasconde dietro un apparente umiltà che, in realtà, è orgoglio e presunzione: si partecipa a Messa ma non si fa la comunione perché non ci si ritiene degni. Non si deve essere santi per celebrare l’Eucaristia e comunicarsi: è l’Eucarestia che santifica e trasforma.
Già nei primi secoli, il monaco Giovanni Cassiano scriveva: se, per ricevere la comunione dovessimo attendere di esserne degni, non dovremmo mai comunicarci. E aggiungeva: coloro che pensano così cadono in una grande presunzione d’orgoglio, perché, almeno il giorno in cui si comunicano, si giudicano degni della comunione.
In questa società del consumo, abbiamo consumato anche il senso collettivo della festa, riducendola a fattore privato. Con la perdita del senso della festa, si è smarrita pure la dimensione comunitaria della celebrazione Eucaristica e il suo valore fondante. E, da individui isolati, si smarrisce anche il senso della fede.
Siamo ben lontani dalla fede espressa dai martiri di Abitene (Tunisia), che trovarono la morte proprio per celebrare l’Eucaristia nel Giorno del Signore. Al giudice che chiedeva loro perché avessero contravvenuto alla proibizione di Diocleziano, la loro risposta fu chiara: «Sine dominico non possumus». Non possiamo essere né vivere da cristiani senza riunirci la domenica per celebrare l’Eucaristia.
Preferendo la morte, piuttosto che rinunciare alla celebrazione domenicale dell’eucaristia, i martiri di Abitene avevano davvero capito il senso pieno delle parole di Gesù: «Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,58).