Undicesima domenica Tempo Ordinario – Anno B (Ez 17,22-24 – Dal Sal 91 (92) – 2Cor 5,6-10 – Mc 4,26-34)
Fin dall’inizio della sua missione, Gesù mette al centro della predicazione il regno di Dio: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Un regno che Gesù descrive sempre per similitudini, immagini e parabole.
La parabola del seme pone l’accento sulla potenza della Parola e sulla sua forza generatrice, mentre quella del granello di senape evidenzia il contrasto tra la piccolezza del seme e la grandezza dell’albero che questo seme è capace di produrre.
Entrambe le parabole, per l’atteggiamento che presuppongono, rappresentano una provocazione e sollecitano una seria riflessione sul nostro pensare, sul nostro sentire e sul nostro agire, generalmente troppo succube al clima culturale caratterizzato dal tutto subito e dall’apparenza.
Il contesto culturale in cui viviamo ricerca ed esalta la gratificazione immediata; porta a pensarsi autosufficienti e, nello stesso tempo, a sentirsi in diritto di dover rivendicare tutto da tutti; genera impazienza, ansia e sfiducia.
Appiattiti sul presente, siamo poco disposti a darci aspettative che impegnano e che esigono tempo per essere realizzate: è sempre più difficile guardare avanti con fiducia e collocare le scelte in una prospettiva di futuro.
Ed è sempre più difficile, in questo humus culturale, vivere da credenti, anche se si è praticanti assidui: si crede davvero in Gesù Cristo non se ci si limita a pregarlo, ma se ci si pone in cammino dietro di lui, lasciandosi fiduciosamente orientare e educare dalla sua parola.
Nella prima parabola, l’impegno e la fiducia nel futuro sono espressi con una semplice immagine: «Un uomo che getta il seme» (Mc 4,26).
Il contadino semina sapendo che il terreno e il seme faranno il resto. L’esempio del seminatore ci dice che siamo chiamati a operare guardando con fiducia oltre il presente, certi della potenzialità della parola di Dio.
Spesso rimaniamo paralizzati perché tendiamo a voler controllare tutto, mossi dalla convinzione che tutto dipenda sempre da noi. Ma non è così. C’è una parte della vita che accade, che viene fuori al di là delle nostre capacità e delle nostre forze.
Chi ha seminato non va continuamente a riaprire la terra per controllare quello che accade, altrimenti ucciderebbe il seme, impedendogli di portare frutto. La terra deve coprire il seme. Il tempo deve farlo marcire. E poi, col tempo, nasce il frutto.
La fede ci chiama ad avviare processi, sapendo che una volta avviati non possiamo controllarne l’evoluzione. Dobbiamo principalmente fidarci di Dio, ma anche degli altri.
Il Regno di Dio richiede la nostra collaborazione, ma è iniziativa e dono del Signore. Siamo chiamati a inserire nell’opera di Dio la nostra opera, apparentemente piccola di fronte alla complessità di tanti problemi.
Fortemente appiattiti sull’io e sul presente, siamo anche vittime e carnefici dell’apparenza, che porta ad illudere, e illuderci, di essere più, o comunque diversi, di quello che realmente siamo.
È stato sempre così. Oggi lo è molto di più, perché abbiamo a disposizione i mezzi per assecondare in modo esponenziale questa tendenza. Per essere, ed esserci, sembra che la famosa espressione di Cartesio, “penso dunque sono”, si sia trasformata in “appaio dunque sono”. E debbo apparire subito e continuamente.
Al popolo in esilio, triste e deluso per avere perso ogni gloria e potere, attraverso Ezechiele il Signore dice: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro… Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico» (Ez 17,22). E Gesù afferma che il regno di Dio «è come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno… cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto» (Mc 4,31-32).
Il dinamismo di Dio si manifesta nella contrapposizione tra piccolo e grande, tra inizi apparentemente insignificanti ed esiti magnifici e inaspettati.
Queste due semplici parabole sono per noi una provocazione radicale.Possiamo anche essere praticanti e fare opere di carità, ma se il nostro sentire, il nostro pensare e il nostro agire, più che lasciarsi educare dalla parola di Dio, sono appiattiti sul qui e ora, subordinati al pensiero corrente, non siamo e non possiamo dire di essere persone che credono in Gesù Cristo e nella forza della sua parola.