Don Giovanni Momigli

Omelia Domenica 14 luglio 2024

Quindicesima Domenica Tempo Ordinario Anno B (Am 7,12-15   Sal 84   Ef 1,3-14   Mc 6,7-13)

«Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno» (Am 7,12). Il sacerdote Amasia non contesta ad Amos l’opportunità di annunciare la parola di Dio nel tempio del regno, mettendo in discussione visioni, riti e stili di vita consolidati.

Come dire: la parola di Dio annunciala altrove, nel santuario del re sappiamo noi cosa è bene dire e cosa è bene fare.

Non siamo più ai tempi di Amos, ma l’essenza della contestazione fatta dal sacerdote Amasia è fortemente presente anche oggi, sia pur con forme assai diverse in relazione al contesto.

A livello sociale, ad esempio, ai cristiani che manifestano posizioni diverse dal pensiero prevalente su questioni sensibili sul piano antropologico, viene detto che lo stato è laico e non sono ammesse posizioni ispirate dalla fede.

Lo stato è laico, ma la società è plurale e in essa convivono visioni religiose, ideologiche ed etiche diverse. E lo stato non può chiedere a nessuno di tacere, neppure ai cristiani.

Quello che lo stato laico deve chiedere a tutti, compresi i cristiani – e che i cristiani debbono imparare a fare – è di intervenire nello spazio pubblico non in nome della loro fede, ma con argomentazioni di ragione con le quali tutti si possono confrontare.

Per la verità, annunciare Cristo e il suo vangelo è tutt’altro che semplice anche all’interno di molte nostre Chiese, sempre più vuote e sempre meno disponibili a vivere «una fede inquieta che aiuta a vincere la mediocrità e l’accidia del cuore, che diventa una spina nella carne di una società spesso anestetizzata e stordita dal consumismo» (Papa Francesco, Trieste 7 luglio 2024).

Come sanno bene molti parroci, l’atteggiamento quotidiano di non pochi praticanti appare impermeabile ad ogni sollecitazione, che non conferma il loro sentire e il loro pensare, le tradizioni e le devozioni a cui sono attaccati.

Raramente succede che qualcuno si rivolga al prete con le parole usate da Amasia nei confronti di Amos. Raramente, ma quando succede emerge una visione del prete molto “utilitaristica”, come dimostrano quello che mi ha detto qualche tempo fa una persona che con fedeltà fa la sua ora di adorazione settimanale: lei deve pensare a dire messa e confessare, il resto non la riguarda, noi siamo cristiani e sappiamo già cosa fare.

Come dire: i sacerdoti come Amasia, che non creano sconvolgimenti e ci sostengono nelle nostre devozioni, avranno la nostra riconoscenza, ma non quelli che, come Amos, vorrebbero sconvolgere le nostre convinzioni e abitudini.

La risposta di Amos, che racconta ad Amasia la propria vocazione e afferma di annunciare la parola per obbedienza a Dio che lo ha chiamato e ha trasformato la sua vita, può essere anche la mia: da quando avevo quindici anni il Signore mi ha inseguito e, fra ostacoli messi da altri e quelli messi da me, alla fine ha prevalso. E ora, con Paolo, non posso che dire: «guai a me se non predicassi il vangelo!» (1 Cor 9,16).

Nessun ostacolo, nessuna chiusura e nessun rifiuto può fermare l’annuncio del regno e la costante novità del vangelo che chiama sempre tutti alla conversione. E la conversione è dinamismo, non staticità.

Dopo l’esperienza di incredulità e di rifiuto fatta a Nazaret, Gesù non si ferma, ma continua ad andare in giro per i villaggi insieme ai suoi discepoli, che nel brano del vangelo di oggi vengono coinvolti nella missione.

Gli apostoli, prima sono stati chiamati singolarmente. E solo dopo essere stati costituiti in un corpo comunitario – i Dodici – vengono innestati da Gesù nella sua stessa missione: «Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri» (Mc 6,7).

Quella che il brano del vangelo di oggi ci presenta è una chiesa in movimento, una chiesa che esce e va incontro, non una chiesa che fa le sue cose e aspetta che qualcuno la raggiunga.

L’essere mandati “a due a due” è una notazione importante. Due, secondo la Legge (Dt 19,15) è il numero minimo per la validità di una testimonianza. Due evita il male della solitudine (Gen 2,18) e offre la possibilità di un sostegno reciproco (Qo 4,9-12). Due, soprattutto, è il numero minimo perché una comunione sia possibile e perché l’annuncio sia espressione di una comunità.

Non si converge a Gesù per restare soli con lui, ma per ascoltare insieme la sua parola, per aprirsi a un nuovo cammino e per partecipare alla sua missione di salvezza sulle vie della città.

Don Momigli

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