Don Giovanni Momigli

Omelia domenica 14 aprile 2024

Terza domenica di Pasqua anno B (At 3,13-15.17-19   Sal 4   1Gv 2,1-5   Lc 24,35-48)

Siamo nel Cenacolo la sera di Pasqua. Mentre gli Undici e «quelli che erano con loro» (Lc 24,33) stanno parlando delle testimonianze di coloro che affermano di aver visto il Maestro vivo, come i due discepoli tornati da Emmaus, improvvisamente, «Gesù in persona stette in mezzo a loro» (Lc 24,36).

Non arriva, non entra, non sale, non scende, ma compare fra loro. È presente come fino a pochi giorni prima; come nei tre anni di viaggi, di discorsi, di segni straordinari, di momenti d’intimità e amicizia.

Il cuore dei discepoli è attraversato da sentimenti diversi che creano in loro come una tempesta emotiva. L’evangelista dice che sono sconvolti, pieni di paura, turbati, dubbiosi, provano gioia e stupore.

«Credevano di vedere un fantasma» (Lc 24,37). Un fantasma può colpire la nostra immaginazione, la nostra emozione, ma non è reale: è presenza inefficace.

Pensare a Gesù come un fantasma è un rischio che corriamo tutti, quando lo trasformiamo in un ricordo, in un’immagine; quando pensiamo che la nostra vita non possa veramente cambiare.

Facciamo di Gesù un fantasma quando lo trasformiamo in un simbolo, in un’icona culturale, in un elemento identitario, forse anche in uno a cui rivolgere preghiere e lamenti, ma senza che nel fondo del cuore ci sia la certezza di fede della sua presenza viva, vera, efficace.

Gesù fa di tutto per convincer i discepoli della concretezza della sua presenza. Lo fa mostrando le ferite della crocifissione: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!» (Lc 24,39). E lo fa chiedendo di condividere con lui il loro pasto: «Avete qui qualche cosa da mangiare?» (Lc 24,41).

Guardare le ferite e condividere il pasto rimandano a quanto avvenuto, invitano a rileggere tutti gli avvenimenti ricordando le parole ascoltate e il cammino fatto insieme: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44).

Tutti abbiamo bisogno di tempo, anche per interpretare quanto vissuto. Per ricordare, per entrare in una nuova prospettiva e anche per maturare nella fede c’è bisogno di tempo, c’è bisogno di fare un cammino.

L’evangelista Luca racconta che, dopo aver mangiato, Gesù Risorto «aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). Allora come oggi, non ci sono solo porte chiuse: ci sono anche menti chiuse. Menti che vedono solo l’immediato, quello che ritengono un possibile interesse o l’emozione personale.

Ci sono menti chiuse nelle trame dell’ovvio e dello scontato, incapaci di accogliere parole nuove, che vengono dagli altri e dalla storia. Menti che non riescono ad andare oltre la superficie, che non si interrogano e non interrogano, che non sono disposte a lasciarsi provocare dal mistero della relazione con gli altri e dal mistero del venire di Dio, nel Figlio morto e risorto.

La Parola alla quale il Risorto apre la mente dei suoi è prima di tutto la sua, quella della Scrittura, che testimonia di lui, della presenza e dello sguardo di Dio nella e sulla storia.

«Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48). La testimonianza consiste proprio nel far vedere con la propria vita, personale e comunitaria, un mistero invisibile agli occhi di chi non crede.

L’unione con Cristo costruisce un vincolo tra fratelli e sorelle che confluisce e si esprime nella comunione fra i membri della comunità.

I primi cristiani stupivano non per le opere che facevano, ma per come si amavano fra loro. Tertulliano, scrittore del terzo secolo, nell’Apologetico riferisce con commozione che i pagani, guardando i cristiani, esclamavano: «Guardate come si amano!».

Le nostre comunità cristiane, oggi, non riescono a suscitare lo stesso stupore. Al massimo, ed è comunque cosa buona in sé pur se riduttiva, possiamo sentir dire: le parrocchie ci sono sempre quando c’è da aiutare nei momenti di emergenza.

Però le parrocchie non ci sono come comunità, a causa del fatto che molti preti e di numerosi praticanti, esprimono la loro religiosità in modo sempre più individualistico.

Nei non credenti, e neppure nei credenti, nasce la stessa meraviglia di cui parla Tertulliano, perché il nostro riferirsi a Cristo è così tenue che non ispira e non sorregge quella relazione comunitaria indispensabile per testimoniare l’evento fondante e caratterizzante l’essere cristiani: la risurrezione di Cristo e la comunione di vita che da essa scaturisce.

Don Momigli

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