Don Giovanni Momigli

Omelia domenica 13 luglio

XV domenica Tempo Ordinario anno C (Dt 30,10-14   Sal 18   Col 1,15-20   Lc 10,25-37)

Il brano del Vangelo proclamato ci aiuta a porci le domande giuste e ci fornisce anche una corretta prospettiva per trovare le risposte.

Interrogato da un dottore della legge su ciò che è necessario per ereditare la vita eterna, Gesù lo invita a trovare la risposta nelle Scritture: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27).

Dato che sul concetto di prossimo c’erano – e ci sono ancora – diverse interpretazioni, quell’uomo pone un ulteriore domanda: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29).

Per gli ebrei del tempo di Gesù “prossimo” era il vicino di casa, il parente stretto, uno della propria cerchia, comunque un israelita.

In un periodo come quello attuale, dove ormai ogni paese è mondo e dove il mondo è paese, anziché allargare lo sguardo, di fatto prevale la stessa ottica di allora, se non addirittura una visione ancora più ristretta.

Come sperimentiamo ogni giorno, dopo aver oscurato l’idea di Dio, la nostra società sta sempre più offuscando l’idea del prossimo: l’altro non è più il mio prossimo, ma un ostacolo addirittura un nemico. Pertanto, quello che dice Gesù al dottore della legge è assai utile anche per noi.

Alla domanda del dottore della Legge, Gesù non risponde direttamente, ma narrando una parabola, che vede come protagonisti una delle tante vittime anonime dell’umanità, un viaggiatore incappato nei briganti e lasciato gravemente ferito sulla strada, e un samaritano, una persona che aveva tanti motivi per evitare gli ebrei, dato che i due popoli si guardavano con disprezzo.

Sulla scena compaiono anche due persone che conoscono bene la legge di Dio: un sacerdote e un levita. Entrambi vedono il poveraccio ma passano oltre, senza fermarsi. Gesù non dice il motivo. Probabilmente per non contaminarsi col suo sangue o perché erano di fretta, ma rimane il fatto che sono indifferenti, non tenendo conto del grande comandamento di Dio, che vuole anzitutto la misericordia.

Il samaritano, invece, vede, si ferma e si fa personalmente carico del ferito, facendo quanto era nelle sue possibilità: «si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”» (Lc 10,34).

La chiave di tutto sta nel fatto che il samaritano «ebbe compassione» (Lc 10,33). E la compassione si mostra con i fatti, lasciandosi coinvolgere concretamente.

Dopo aver raccontato la parabola Gesù si rivolge di nuovo al dottore della legge, rovesciando la domanda che lui gli aveva fatto: «Chi di questi ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (Lc 10,36-37).

Per Gesù non siamo noi che, in base ai nostri criteri, definiamo chi è il prossimo e chi non lo è: è la persona in situazione di bisogno a riconoscere chi gli è prossimo.

Fin dall’inizio del dialogo aperto dalla domanda del maestro della Legge, appare chiaro che Gesù non dà risposte. All’inizio rinvia alla Scrittura e poi si serve della parabola per cambiare l’ottica di partenza e per passare da una domanda all’altra, in modo che sia lo stesso dottore della Legge a dare la risposta: «Chi ha avuto compassione di lui» (Lc 10,37).

«Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Le parole rivolte da Gesù al dottore della legge, con cui si chiude il racconto, non sono un semplice e generico appello ad amare il prossimo.

Gesù vuole condurre il suo interlocutore, e tutti coloro ai quali arriva questa sua parola, a farsi vicino a chi si trova nel bisogno, indipendentemente di chi esso sia, mossi da vera compassione. Se manca la compassione si può anche fare qualcosa di buono, ma non si potrà mai condividere il dolore delle persone che incontriamo.

Don Momigli

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