Mercoledì della Settimana Santa (Is 50,4-9 Sal 68 Mt 26,14-25)
Ogni vero discepolo vive alla scuola del Maestro. Il discepolo può «indirizzare una parola allo sfiduciato» (Is 50,4) solo perché è stato istruito dal Maestro.
È Dio stesso che apre l’orecchio del discepolo (Is 50,5). Non si tratta, però, di un’azione solo intellettuale, ma del coinvolgimento di tutta la persona nell’accoglienza dell’opera del Signore.
Il rapporto con Dio è dato innanzitutto dall’ascolto. Il servo del Signore, si pone alla scuola dell’unico Maestro. Si fa attento alla voce di Dio e docile alla sua volontà.
Una persona che ascolta solo sé stessa, non può costruire fruttuose relazioni e non può certamente essere discepola di Gesù, anche se condivide con lui un pezzo di strada e una particolare intimità, come nel caso di Giuda.
Il vero dramma di Giuda, che rischia di essere il nostro stesso dramma, sembra derivare dal non essere mai stato un vero discepolo, dal non avere accettato il suo posto e il suo proprio ruolo.
Quello che il profeta Isaia indica come l’atteggiamento proprio del «discepolo» (Is 50,4) viene smarrito dall’apostolo Giuda, che si tira «indietro» e non apre «l’orecchio» (50,5), preferendo, almeno da un certo punto in avanti, perdersi nell’illusione che basta ascoltare sé stesso.
Gesù, però, trova sempre il modo di smascherare ogni ipocrisia e costringe tutti a guardarsi dentro. La Parola di Dio ci pone sempre davanti alla verità, anche di noi stessi.
«In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (Mt 26,21). Queste parole di Gesù mettono in subbuglio la comunità, ma il centro del pensiero dei discepoli è il loro io.
La vera angoscia di ogni discepolo non sembra essere il fatto che Gesù venga tradito, ma l’idea che il colpevole possa essere lui: «profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: “Sono forse io, Signore?”» (Mt 26,22).
Anche Giuda cerca di nascondersi e di confondersi con gli altri e pone la stessa domanda: «Rabbì, sono forse io?» (Mt 26,25). La risposta di Gesù, però, lo distingue. Stando alla narrazione dell’evangelista, Gesù non risponde agli altri discepoli, ma solo Giuda: «Tu l’hai detto» (Mt 26,25).
La risposta di Gesù a Giuda non esprime il compiacimento di chi ha individuato il colpevole, ma la tristezza di chi perde un amico. È venuto per salvare tutti e fino all’ultimo guarda Giuda con amore, offrendogli la possibilità del cambiamento.
Con la sua risposta Gesù fa capire a Giuda di sapere quello che sta avvenendo, prima di tutto nel profondo del suo cuore. Giuda consuma un tradimento pensando di “consegnare” Gesù, senza rendersi conto che è Gesù stesso che si consegna liberamente anche per lui.
«Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?» (Mt 26,14). Il passo fatto da Giuda prima della cena di Pasqua ci mette di fronte all’abisso del cuore umano. Non finiremo mai di riflettere e di interrogarci abbastanza sulle motivazioni profonde che hanno spinto Giuda a tradire il suo Maestro e, forse, a non accorgersi fino in fondo della valenza del suo atto.
Sono stati molti gli scrittori e gli artisti che hanno cercato di immaginare e di spiegare questo gesto di assoluta negazione di ogni relazione. Ma le motivazioni del suo atteggiamento rimangono nel mistero
Quando poi prende coscienza del suo gesto, «preso dal rimorso» (Mt 27,3) riporterà il denaro e andrà a «impiccarsi» (Mt 27,5).
In questo epilogo c’è tutto il dramma di una persona chiamata da Gesù stesso al discepolato; una persona che ha condiviso con lui un pezzo di vita e che arriva prima al tradimento e poi alla convinzione che per questo tradimento non ci possa essere perdono.
Non opporre resistenza, non tirarsi indietro, quando il Signore ci apre l’orecchio (cfr Is 5,5), ci parla e ci provoca, è condizione indispensabile per accogliere il suo amore, per conoscere la verità di noi stessi e per indirizzare agli altri una parola di misericordia, come ha fatto l’apostolo Paolo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
Da parte di Dio c’è empre l’offerta del perdono.