Mercoledì della quinta settimana di Quaresima (Dn 3,14-20.46-50.91-92.95 Dn 3,52-56 Gv 8,31-42)
Ormai alle soglie della Settimana Santa la liturgia ci invita a riflettere sulla qualità della nostra fede e sul valore della parola di Dio nella nostra vita.
Come abbiamo ascoltato nella prima lettura, Nabucodònosor, esige piena sottomissione e cerca di imporla con ogni mezzo, confidando nel suo potere: «Quale dio vi potrà liberare dalla mia mano?» (Dn 3,15).
Ma Sadrac, Mesac e Abdènego, amministratori di Babilonia, non si sottomettono ai voleri del re e anche davanti alla morte si dichiarano fedeli al Dio dei padri, che non li ha mai abbandonati.
La conclusione del racconto presenta il capovolgimento della situazione. Il re Nabucodonosor, vedendo che neppure il fuoco riesce ad avere il sopravvento sui tre giovani calati nella fornace ardente, benedice il Dio d’Israele riconoscendogli il più grande tra i poteri, quello di salvare dalla morte.
La fede di questi tre giovani, che hanno accettato di sacrificare la vita per rimanere fedele al loro Dio, rendendo possibile il cambiamento di Nabucodonosor, rappresenta un forte monito per ciascuno di noi e ci chiama a una seria verifica sulla nostra fede in Gesù Cristo e sull’impatto che questa fede ha sulle persone con le quali interagiamo.
La fedeltà cercata dagli uomini è sempre data da una qualche costrizione, sia pur con modalità assai differenziate. La fede che Dio domanda, invece, nasce dalla consapevole fiducia in lui e nel suo amore.
La vera fede in Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, impegna in un cammino di maturità umana e di comunione, che rende liberi e dona vita.
Per questo, per essere discepoli di Gesù non basta sapere qualche informazione in più su di lui o riferirsi al sistema di valori che deriva dal suo messaggio.
Per l’evangelista Giovanni non basta neppure ascoltare e mettere in pratica la parola di Gesù, ma occorre rimanere in questa parola: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31).
«Rimanere» è un verbo che nella lingua del vangelo di Giovanni ha molti significati, che vanno custoditi con cura.
Un primo significato è quello di “abitare”, “dimorare”: fare della parola di Gesù la casa dove trovare riparo, per dare senso ai gesti più quotidiani e riscaldare le relazioni più intime.
Un’altra accezione di questo verbo è “sostare”, “indugiare”, “consumare del tempo”: in un mondo in cui si dà valore solo a quello che produce risultati materialmente misurabili, dedicare tempo ed energie nella parola è una scelta rivoluzionaria, trasformante.
Il verbo «rimanere» vuol dire anche “perseverare”, “restare saldo”, “resistere all’urto”: la parola è come un’armatura che protegge nella battaglia, nella lotta contro gli assalti del maligno.
Un altro significato è “attendere”, “aspettare”: impedisce di guardare al solo presente e fa tenere alto lo sguardo, nell’attesa di una sempre maggiore pienezza.
Rimanere nella Parola mette il discepolo in un cammino di conoscenza della verità che introduce nella libertà e fa guardare in faccia la realtà: ci fa rendere conto di quanto siano condizionanti le abitudini e che viviamo nell’illusione di essere davvero liberi, convinti di esserlo come lo sono i Giudei nel vangelo (cfr Gv 8,33), mentre la nostra è una libertà ferita e limitata.
Per una migliore comprensione del discorso di Gesù mi pare non possa essere trascurato un avverbio usato da Gesù per due volte: siete «davvero miei discepoli» (Gv 8,31); «sarete liberi davvero» (Gv 8,38).
Il significato dell’avverbio «davvero» non ha una connotazione teorica né, tantomeno, accademica. Gesù intende un effettivo coinvolgimento esistenziale, capace anche di creare relazioni sempre più ampie a partire dal legame tra il Padre e il Figlio, che non si richiude su sé stesso, ma si comunica e si espande.
Quando il Signore ci chiede di diventare suoi discepoli, ci offre la possibilità di entrare in quel dinamismo di comunione vissuta dal Padre e dal Figlio, introducendoci nella libertà di un amore che non può essere offuscato o fermato da nessuna minaccia, perché nulla può impedire il dono consapevole e libero della propria vita.