Mercoledì Quattordicesima Settimana Tempo Ordinario – Anno Pari (Os 10,1-3.7-8.12 Sal 104 Mt 10,1-7)
L’idolatria è un atteggiamento che nasce dalla perenne tentazione di voler gestire tutto e tutti. Rendere culto divino a opere costruite da mani umane, come il vitello d’oro, dà l’illusione di poter disporre, manipolare, la divinità.
Come Isaia, anche il profeta Osea usa l’immagine della vigna per indicare Israele: Dio ha sempre benedetto il popolo come l’agricoltore si prende cura della sua vigna.
Israele è benedetto da Dio, ma invece di riconoscere la sua benevolenza, il popolo onora le divinità dei popoli pagani che abitano nelle terre confinanti: volta le spalle al Dio vivo per onorare dei vuoti, per gratificare i sensi.
Davanti all’atteggiamento utilitaristico – «vite rigogliosa era Israele, che dava sempre il suo frutto» (Os 10,1) – e ingrato, confidare in sé stessi e rivolgersi alle maschere della divinità, Osea denuncia la falsità del cuore e annuncia che Dio non rimane a guardare, profetizzando una distruzione imminente: spine e rovi che avrebbero avvolto gli altari, monti che crollano su un popolo disperato e solo.
Oggi abbiamo idoli ben più raffinati, spesso nascosti in false necessità materiali e anche spirituali, ai quali affidiamo i nostri progetti e le nostre speranze. Ma quando arriva il momento della prova, volgendo il nostro sguardo verso questi idoli vuoti, ci accorgiamo, come gli ebrei di Osèa, dell’inutilità del nostro gesto: «Ma anche il re, che cosa potrebbe fare per noi?» (Os 10.3).
Come è accaduto alla prima donna e al primo uomo, lasciandoci sedurre dagli idoli anche noi ci scopriremo nudi, soli e cercheremo di nasconderci.
Dio, però, come avvenuto dagli inizi della storia e del peccato, non ci abbandona in balia di noi stessi e della distruzione, ma ci chiama costantemente alla conversione, bussando alla porta del nostro cuore e illuminando le nostre menti.
La ricchezza della chiamata a seguirlo e ad annunciarlo che il Signore ci dona di vivere, può anche tramutarsi nella nostra rovina, quando ci chiudiamo in noi stessi e ci lasciamo sedurre della sete di possesso, dell’inganno della ricchezza, della seduzione del potere.
Spesso non ce ne accorgiamo subito, ma la voce del Signore ci insegue e ci ammonisce. E continuamente chiama.
«Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, Gesù diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità» (Mt 10.1). Troppo spesso anche nell’esperienza cristiana abbiamo pensato e pensiamo all’esercizio del potere come lo pensa il mondo.
Il potere non è l’esercizio di una forza, ma di un servizio. Dare potere a qualcuno, significa dargli la possibilità di fare. I discepoli possono liberare, consolare, guarire, sostenere.
La responsabilità, per una persona ma anche per un gruppo dirigente in qualsiasi ambito, è pari al potere che può esercitare. Quando si è messi in condizione di poter fare il bene per qualcuno o per la comunità e si omettere di farlo, questo comporta già un giudizio. Peggio ancora se le possibilità di cui si dispone vengono usate in modo improprio.
Il conferimento del potere ai dodici da parte di Gesù è preceduto dalla chiamata e dal loro avvicinamento a lui ed è seguito dall’invio in missione, che comporta un allontanamento fisico da Gesù.
Tutti però sono nel cuore di Dio: la chiamata è sempre personale e l’evangelista si premura di elencare ciascuno dei dodici per nome.
Non si converge a Gesù per restarvi. La chiamata a una maggiore intimità con il Signore non è fine a sé stessa, proprio come il potere che viene dato ai dodici non è per loro, ma per gli altri, per le «pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10,7).
L’elenco dei discepoli non si ferma a quello riportato dai vangeli, ma si allunga nel corso della storia, fino a contenere i nostri nomi. Ciascuno è chiamato e ad ognuno è dato un certo potere, una certa possibilità di fare il bene in modo effettivo, concreto, iniziando dal vivere la misericordia con chi ci è prossimo, con chi ci siede accanto.
È sempre più facile pensare che per vivere il vangelo si debba andare là dove forse non andremo mai. Il potere che è dato a tutti, la possibilità che a nessuno manca, consiste, molto più semplicemente, nell’attraversare il metro di pavimento che ci separa da chi vive con noi e nel lasciare che chi ci vive accanto possa attraversarlo per venire verso di noi.