Don Giovanni Momigli

Omelia Badia Fiorentina Mercoledì 10 aprile 2024

Mercoledì Seconda Settimana di Pasqua (At 5,17-26   Sal 33   Gv 3,16-21)

Gli apostoli che vengono imprigionati a causa della loro predicazione e dei segni che compiono nel nome di Gesù, sono gli stessi che non molto tempo prima erano fuggiti mentre il Maestro si consegnava nelle mani dei suoi crocifissori e poi si erano barricati in casa «per timore dei giudei» (Gv 20,19).

Dopo che il Signore è risorto ed aver ricevuto lo Spirito, si espongono senza timore, liberati dalla paura che prima li inchiodava.

Si cerca di far tacere le voci scomode degli apostoli con le minacce, la prigione e la prospettiva della morte, ma Dio interviene. Nella notte, mentre sono in prigione, un angelo del Signore «aprì le porte del carcere» (At 5,19).

Il Signore manda il suo angelo a liberarli, non tanto perché hanno annunciato Cristo e il suo vangelo, ma perché continuino a predicare: «Andate e proclamate al popolo, nel tempio, tutte queste parole di vita» (At 5,20).

Le parole di vita non possono rimanere nascoste: vanno proclamate pubblicamente, nel luogo destinato al culto; nei luoghi della vita.

Forti dell’azione dello Spirito che li sostiene e li guida, gli apostoli si assumono coraggiosamente il compito di testimonianza che è stato loro affidato, tanto che la Parola valicherà i confini della Palestina.

«Andate e proclamate» (At 5,20). Il mandato affidato agli apostoli è costantemente rinnovato nei secoli ed ora ci raggiunge.

Noi, credenti di questo tempo, non siamo chiamati a piangerci addosso perché le nostre comunità cristiane non sono quello che dovrebbero essere; non siamo chiamati a lamentarci della società nella quale ci troviamo a vivere o a scagliarci contro qualcuno o qualcosa.

Siamo invece chiamati, con i nostri limiti e le nostre debolezze, ad accogliere il mandato di andare a proclamare la Parola di Cristo, testimoniandone la significatività per questa società che si dibatte nell’inconsistenza di messaggi svuotati di ogni valore e di ogni ideale e chiusa nelle proprie dinamiche ed emozioni.

L’annuncio di Cristo non va riduttivamente pensato come messaggio che riguarda l’intimità di ciascuno: è annuncio necessario per recuperare l’umano in tutta la sua verità, con positive implicazioni sul piano personale, ma anche a livello sociale, politico, culturale ed economico.

Nel dialogo fra Gesù e Nicodemo, «maestro di Israele» (Gv 3,10), di cui il vangelo di oggi riporta una parte, troviamo il cuore della rivelazione, l’essenza dell’annuncio.

Basta fermarsi su tre punti presenti nel brano che abbiamo ascoltato: Dio «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16); chi crede nel Figlio trova la salvezza (cfr Gv 3,18); «La luce è venuta al mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19).

Il mondo può apparire allo sbando, ma non andrà a sbattere, perché l’amore di Dio recupera ogni smarrimento e supera ogni non senso. Questo amore si è manifestato e continua a manifestarsi nel Cristo crocifisso: «Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15).

Dio in Cristo si dona senza condizioni. Ma c’è la libertà umana. Chi accogli Dio che si dona in Cristo e crede in lui sfugge al giudizio e vive la vita per sempre, ma chi non lo accoglie e non crede si giudica da sé stesso.

L’essere umano è relazionale, sta dentro una trama di relazioni ed è teso alla pienezza della comunione.

La fede è l’evento del nostro permanente convertirsi, del nostro continuo uscire da noi stessi, della nostra costante ricerca di pienezza.

Accogliere la luce di Cristo significa valorizzare l’umano, recuperare il valore inestimabile di tutti e di ciascuno.

Camminare nelle tenebre, invece, significa utilizzare il fratello e la sorella per i propri fini o per quelli dell’istituzione, civile o religiosa che sia; lasciarsi corrompere per un bene materiale in più, per un maggiore successo, per una migliore agiatezza.

Chiediamo al Signore la grazia di essere attratti da lui e di muoverci «verso la luce» (Gv 3,20), in modo che appaia chiaramente che le nostre opere «sono state fatte in Dio» (Gv 3,21), perché frutto della nostra costante conversione a lui.

Don Momigli

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