Don Giovanni Momigli

Omelia Badia Fiorentina martedì 4 giugno 2024

Martedì della Nona Settimana del Tempo Ordinario – anno pari (2Pt 3,11-15.17-18   Sal 89   Mc 12,13-17)

«Aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). Il tracciato della storia, per la seconda lettera di Pietro, si concluderà nel segno della giustizia – quella vera – che abita solo nel nuovo ordine delle cose, quando si esprime in pienezza il regno di Dio che in germe è già presente.

Aspettare «nuovi cieli e una nuova terra» non significa vivacchiare, non comporta l’estraniarsi dalla realtà e dalle sue dinamiche, ma tenere viva l’attesa della salvezza con uno stile di vita mosso dalla fede, dall’amore e dalla speranza.

La vigilanza non coincide con un particolare impegno ascetico, ma si esercita nella fatica quotidiana della ricerca della verità delle cose, per non smarrirci nella difesa dei nostri idoli, e crescere «nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 3,18).

L’episodio presentato dal vangelo è un esempio di smarrimento. Leader spirituali e politici, mischiando le dimensioni, si presentano insieme per rivolgere a Gesù una domanda subdola, intrisa di aspettative religiose popolari che attendono l’arrivo di un messia liberatore, politicamente impegnato e vincitore.

Farisei ed erodiani, da sempre nemici, pur di non rinunciare all’idolo del potere – religioso per i farisei e politico per gli erodiani – si alleano per tendere un tranello a Gesù: «Maestro…È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?» (Mc 12,14).

Con la sua risposta Gesù invita a porre ordine, a dare a ogni cosa il proprio valore, a restituire a ogni aspetto della vita ciò che ad esso appartiene.

«Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio» (Mc 12,17). Con questa affermazione Gesù non solo riconosce l’autonomia delle cose terrene e, come è stato detto e scritto, la separazione fra chiesa e stato, ma dice molto di più.

Anzitutto ci dice che non ci è affatto lecito “fuggire il mondo”, come chiaramente afferma il Concilio: «Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo… Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna» (Gaudium et spes, 43).

L’essere dentro la società, in quanto ne facciamo parte, e il servizio al regno di Dio, ci portano inevitabilmente a confrontarci, e anche scontrarci, con la cultura dominante: è in questa cultura che abitiamo e in questa cultura siamo chiamati a far risuonare l’annuncio di Cristo come buona notizia per tutti.

Gesù ci offre un’indicazione preziosa per la vita, personale e sociale: guardare sempre in faccia la realtà, guardare in faccia le cose per capire cosa e a chi dobbiamo rendere.

L’immagine e l’iscrizione sulla moneta sono di Cesare: a Cesare si rende quello che porta la sua immagine. Ma niente di più. Soprattutto non gli si deve dare quello che siamo.

Bisogna maturare la consapevolezza della interdipendenza gli uni con gli altri e che tutto è connesso. Ma non dobbiamo mai metterci nelle mani di nessun Cesare, qualsiasi sia l’aspetto che assume nel tempo: da quello politico a quello religioso; da quello economico a quello tecnologico; da quello materiale a quello dell’emozione, del pensiero dominante e anche dell’assolutizzazione del proprio io.

Si rende a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio vivendo con fedeltà la nostra appartenenza a Cristo e alla città terrena, sapendo che essere di Cristo porta a spendersi per l’umanità.

La fedeltà a Dio e all’umanità ci porta a superare la visione, e anche la comunicazione, di un cristianesimo ridotto a dottrina, etica e riti o confinato nel privato. Consapevoli che siamo sempre in cammino e che va coltivato uno sguardo vigile, per riconoscere e testimoniare il regno presente nel mondo e offrire quel contributo originale di cui ha bisogno l’umanità di tutti i tempi.

Crescere nella conoscenza di Cristo (cfr 2 Pt 3,18) ci rende sempre più liberi e ci porta a capire e accettare che siamo chiamati a donare con amore la nostra vita a lui e ai fratelli, così come lui l’ha consegnata per amore del Padre e di tutto il mondo.

Don Momigli

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