Don Giovanni Momigli

Omelia Badia Fiorentina – Martedì 25 giugno 2024

  • Martedì della Dodicesima Settimana Tempo Ordinario anno pari (2Re 19,9-11.14-21.31-35.36   Sal 47   Mt 7,6.12-14)

Il regno di Giuda è minacciato dall’Assiria. Sennàcherib si è spinto con il suo esercito verso Giuda e Gerusalemme, con l’intenzione di assoggettare tutti i territori.

Per rendere più forte la minaccia, il re di Assiria fa precedere l’azione militare da un intervento scritto, nel quale dice che per Giuda non c’è nessuna possibilità di scampo né via di salvezza.

Il tentativo di Sennacherib è quello di ostentare la sua superiorità, spaventare Ezechia, re di Giuda, e intimidire il popolo cercando di far vacillare la sua fiducia nel Dio di Israele: «Non ti illuda il tuo Dio in cui confidi» (2Re 19,10).

Potremmo dire che Sennacherib usa la stessa tattica del diavolo, principe del male: per indebolire il popolo cerca di far vacillare il cuore di ogni persona, sapendo di non poter andare molto lontano fino a quando una persona rimane ancorata a Dio.

Leggendo la lettera di Sennacherib, Ezechia, re di Giuda, è preso da forte preoccupazione e angoscia «salì al tempio del Signore, l’aprì davanti al Signore e pregò. (2Re 19,14-15).

Srotolando e leggendo la lettera provocatoria davanti al Signore e mettendosi interamente nelle mani di Dio con un atto di totale fiducia in un momento di forte tribolazione, Ezechia dimostra di avere una grande confidenza, forse maturata da ripetuti momenti di preghiera.

Ieri come oggi, chi crede condivide col Signore, in un contesto di preghiera, le sue gioie e le sue preoccupazioni. E ieri come oggi il Signore in qualche modo risponde, anche se con modi e tempi diversi da quelli da noi attesi.

In questa particolare situazione, però, Dio risponde a Ezechìa immediatamente attraverso un messaggio del profeta Isaia, che – per la sua lunghezza – la liturgia ci presenta con dei tagli in più parti.

Le parole di Isaia sono un poema ironico, di scherno nei confronti del re di Assiria: «ti deride la vergine figlia di Sion.. scuote il capo la figlia di Gerusalemme» (2Re 19,21). Come dire: perfino le ragazze inabili alle armi e alla guerra hanno compreso l’infondatezza delle minacce assire nei confronti di Giuda.

Non conosciamo il modo in cui sia intervenuto l’angelo del Signore per liberare il regno di Giuda dalla minaccia assira, di cui parla la lettura (cfr 2Re 19,35), ma dagli stessi annali di Sennàcherib veniamo a conoscenza di un infruttuoso assedio di Gerusalemme precisamente, nel 701 a.C.

Una fiduciosa confidenza col Signore, come quella maturata da Ezechia, si acquisisce col tempo e focalizzandosi non solo sui divieti o sul male da evitare, bensì sul bene attivamente da fare: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12).

La fede porta a fare il bene, e, come ha detto ieri nel suo saluto alla città il nuovo Arcivescovo, Mons Gherardo Gambelli: «In tempi difficili come quello che stiamo vivendo, di cambiamento d’epoca, non basta fare il bene, bisogna fare bene il bene».

Fare bene il bene, esige una maggiore attenzione alle persone e ai loro volti, un accorto discernimento e una fattiva tensione alla promozione umana, che non si esaurisce nel solo e pur necessario impegno emergenziale e assistenziale.

Fare bene il bene, significa non fermarsi a valle, ma risalire la cima e cercare di intervenire a monte per correggere i meccanismi perversi che producano ingiustizie e persone povere, emarginate, discriminate.

Per fare bene il bene, soprattutto, occorre entrare «per la porta stretta» (Mt 7,14), che non è la via più facile, ma che non chiede speciali sacrifici o pratiche ascetiche particolari.

Possiamo dire che la porta è stretta perché è a nostra misura. È a misura di ognuno di noi. E ciascuno, per passare, non deve appesantirsi; deve sapersi distaccare da tutto quello che ingombra impedendo il passaggio.

Se voglio entrare nella porta della salvezza debbo abbandonare il mio peccato, inteso come il male che compio e il bene che non compio. Ma debbo anche abbandonare le mie difese, la mia autosufficienza, le mie ossessioni, le mie sicurezze e pure le mie ristrette visioni di bene, per mettermi tutto intero sotto lo sguardo di Dio.

Don Momigli

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