Feria propria del 5 gennaio: 1Gv 3,11-21 Sal 99 Gv 1,43-51
All’inizio dell’esperienza cristiana non c’è un’idea o una particolare esperienza mistica, ma un’esperienza profondamente umana che, nella fede, ci introduce alla conoscenza di Cristo e nel “noi” dei figli di Dio.
Il brano del vangelo testimonia come Gesù sia arrivato nella vita dei discepoli attraversando le loro relazioni e, conseguentemente, come i potenziali discepoli arrivano a Gesù attraverso un intreccio di relazioni che in modo diretto o indiretto portano fino a lui.
È avvenuto così per Andrea e l’altro discepolo, che seguono Gesù su indicazione del Battista. Così è accaduto a Pietro, che è portato a Gesù da suo fratello Andrea. Così avviene per Natanaele che arriva a Gesù attraverso Filippo, che sembra essere stato incontrato per caso da Gesù, anche se l’annotazione dell’evangelista ci fa pensare a una relazione con i primi discepoli: «era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro» (Gv 1,43).
Ci sono relazioni su cui la grazia di Dio riesce a far leva fino al punto da farle diventare la strada principale che Gesù percorre per arrivare direttamente a noi.
Poco importa se non sempre le nostre idee e i nostri discorsi non sono da santi, come Natanaele, che sembra più preso dai suoi pregiudizi su Nazareth che da quello che gli viene detto dall’amico Filippo su Gesù.
La chiamata di Natanaele mi sembra possa rappresentare il cammino di ogni persona che si apre alla grazia di Dio. Per arrivare a Gesù, Natanaele ha bisogno di due mediazioni e di superare i suoi schemi di ragionamento.
La prima mediazione è la sacra scrittura: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti» (Gv 1,45). La seconda mediazione è una persona concreta: Filippo, che condivide con lui la sua personale esperienza dell’incontro con Gesù.
Natanaele riesce a superare il pregiudizio che blocca la sua fiducia, «Da Nazareth può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46), seguendo l’invito di Filippo: «Vieni e vedi» (Gv 1,46). Per superare un qualsiasi tipo di pregiudizio, infatti, è sempre necessario muoversi.
Il movimento di Filippo viene ampiamente ripagato: si rende conto che la sua vita è da sempre sotto lo sguardo di Gesù, «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1,47), anche quando ne era del tutto ignaro: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48).
Gesù ha la capacità di intercettarci anche con dettagli che per gli altri non contano nulla, ma che per noi sono decisivi.
L’unica cosa che dovremmo sempre tenere sveglia è la capacità di accorgersi quanto avviene intorno e dentro di noi e l’umiltà di accogliere ciò che ci sta accadendo: quando Gesù intercetta la nostra vita, non sempre stiamo vivendo relazioni vere e il nostro si non è mai scontato.
La vita cristiana è nuova luce ed è anche rinuncia. Ma rinuncia a voler controllare tutto e tutti: un perdere sé stessi per attingere, come scrive Paolo ai Romani, alla «profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio» (Rom 11,33).
Il «principio» (1Gv 3,11) della vita nuova, nella quale non solo possiamo ma anche «dobbiamo dare la vita per i fratelli» (3,16), non può che prendere avvio da un atteggiamento talmente semplice da essere, molto spesso, disatteso: consegnare sé stessi e le profondità del nostro cuore, senza preoccuparci troppo di quali potranno essere le conseguenze
Le parole dell’apostolo Giovanni, nella sua lettera, sono estremamente chiare: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18). E si ama solo vivendo relazioni, sentendoci parte di una comunità plurale.
La carità fraterna è il compimento di tutta la Legge. Ma il comandamento nuovo dell’amore di cui parla Giovanni eleva la qualità umana del vivere, che non può essere ridotta alla sola capacità di non fare «come Caino, che era dal Maligno e uccise suo fratello» (3,12). Cioè, non può essere ridotta solo a non fare il male.
La qualità umana portata dalla Pasqua di Gesù è quell’amore che, insieme, è conseguenza e via di accesso al mistero della risurrezione: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14).
Si ama non per passare dalla morte alla vita, ma si è capaci di amare come Cristo ci ha amato proprio perché passati dalla morte alla vita.
L’imperativo primo, pertanto, è la celebrazione della Pasqua, che nutre e rende possibile anche un nuovo modo di relazionarci tra noi e di amare fino in fondo, come Cristo ci ha amato.
È la risurrezione di Cristo che illumina la verità di noi stessi e della realtà e che ci consente di vivere il suo amore nella concretezza, senza imprigionarlo nelle nostre umane idee di bene e di carità.