Giovedì della Quarta Settimana Tempo Ordinario (Eb 12, 18-19.21-24 – Salmo 47 – Mc 6, 7-13)
Ci possiamo accostare a «Gesù, mediatore dell’alleanza» (Eb 12,24), perché Gesù stesso ci chiama «a sé» (cfr Mc 6,7).
Ci chiama per farci vivere in intimità con lui e per inviarci in mezzo alla gente, ad annunciare il regno di Dio e invitare alla conversione, a scacciare i demòni, a consolare e ungere con olio gli infermi.
Incontrare e vivere intimamente con Gesù «riempie il cuore e la vita intera» (E.G. 1) e apre, anzi, spinge, a un continuo esodo, per condividere la gioiosa e feconda esperienza della relazione con lui e dell’annuncio del Vangelo.
Si può parlare di missione solo quando si testimonia la gioia e la pienezza della relazione con Gesù. Se questa gioia e questa pienezza mancano, non si può parlare di vera ed efficace testimonianza ed è urgente e necessario risintonizzare il nostro rapporto con Gesù.
Può considerarsi inviato solo chi irraggia intorno a sé l’esperienza della comunione con Gesù e ha in Gesù il suo centro di riferimento: «chiamò a sé», «prese a mandarli», «dava loro potere», «ordinò», «diceva loro» (Mc 6,7.8.10).
Se manca una vera intimità con Cristo, il nostro annuncio, e la stessa relazione con gli altri, sono solidi e stabili quanto la sabbia al vento. Se manca l’apertura e il rispetto dell’altro, la nostra adesione e intimità con Cristo è solo nominale, formale, perché di fatto viviamo chiusi in noi stessi, pur riferendosi a lui.
La vocazione e la missione sono autentiche se trovano origine in Gesù e se Gesù è il fondamento e il criterio ultimo di verifica dell’intero nostro cammino, di ogni nostra scelta, di ogni azione e di ogni relazione.
Se a monte c’è solo una mia iniziativa, anche se piena di entusiasmo, e se non vivo un’intima relazione col Signore, la mia opera evangelizzatrice, la mia attività in parrocchia o in un gruppo ecclesiale, perfino la mia scelta di vita religiosa, rimarranno entro un orizzonte puramente umano e difficilmente potranno profumare di Vangelo ed essere segnate dalla delicatezza dell’amore.
Quando la nostra sequela si fossilizza sulla chiamata o si lancia direttamente nella missione, senza assumere fino in fondo l’indissolubile dinamica chiamata-invio, inevitabilmente si va in affanno.
Non sono rare le esperienze personali e comunitarie che, pur animate da sincere intenzioni, faticano quando si tratta “stare con lui” (cfr Mc 3,14) o quando si tratta di relazionarsi col mondo fuori di noi.
Soprattutto quando si tratta di aprirsi all’ascolto e al confronto con persone che hanno un pensiero e una visione diversa dalla nostra, pur condividendo la nostra stessa scelta di fede e anche la nostra stessa scelta di vita.
La prima testimonianza alla quale siamo chiamati è quella del rispetto delle persone, che sono più grandi delle loro idee e delle loro azioni. Un rispetto che si esprime anche attraverso l’ascolto e il dialogo con la persona che esprime il suo sentire e il suo pensare, pur non condividendo sempre quel che si ascolta. Un rispetto che si esprime pure nell’esprimere il nostro sentire e il nostro pensare.
«Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5,47), ci ammonisce Gesù nel discorso della montagna.
Parafrasando potremmo dire: se ascoltiamo e ci relazioniamo solo con coloro che la pensano come noi, che merito abbiamo? non fanno così anche i pagani?
Se la nostra chiamata è vera e la nostra intimità col Signore è profonda, lo stare con Gesù e la dimensione contemplativa non potranno mai chiuderci alla dimensione relazionale, neppure in presenza di oggettive problematicità nostre e di altri.
Così come la condivisione con persone che hanno sensibilità e visioni diverse, pur creando in noi qualche turbamento e scompiglio, non potrà mai cambiare l’essenza della nostra sequela. Al massimo potrà indurci a cambiare qualche schema, dei ritmi o alcune modalità operative e relazionali. E non è detto che, qualche cambiamento, non sia un bene pure per noi.
L’annuncio, oltre a fondarsi su Cristo, trova in lui anche lo stile e le modalità che danno volto alla nostra testimonianza.
Qualsiasi forma di vita assuma, la sequela e l’annuncio del Regno ci rendono pellegrini, non da funzionari inamovibili o manager onnipotenti, e sono caratterizzati dalla sobrietà (cfr Mc 6,7-9) e dal cammino comunitario (cfr Mc 6,7).
Ogni avventura isolata, anche di un gruppo quando è chiuso, sarà sempre incapace, non solo di vincere i demoni incontrati lungo la strada, come ci chiede il Signore, ma anche di far emergere l’anima malata che è in noi.
Lo Spirito Santo scaldi i nostri cuori, illumini le nostre menti e ci doni il calore della comunione con Cristo, fra noi e con i fratelli e le sorelle che incontriamo sul nostro cammino. Solo coltivando questa comunione potremo profumare di Vangelo.