Giovedì della Prima Settimana di Quaresima (Est 4,17k-u; Salmo 137; Mt 7, 7-12)
Nella vita, in un momento o nell’altro, capita di sperimentare il tempo della malinconia, della solitudine e pure dell’angoscia. A volte sembra perfino che tutto crolli, che la vita vissuta fino a quel momento non abbia senso, sia stata impostata male o sprecata.
Quando ci troviamo in situazioni che sembrano senza sbocco, dal nostro intimo più profondo, al di là della qualità della fede, in modo spontaneo nasce un grido: Signore, aiutami! Aiutami a uscire da quanto mi opprime e mi angoscia. Aiutami a vedere una luce, a trovare la forza, a intraprendere un nuovo cammino.
Nella nostra preghiera, spesso, non ci limitiamo a presentare i nostri bisogni, ma suggeriamo a Dio come dovrebbe agire, come se sapessimo meglio di lui cosa è bene per noi, per le persone vicine, per il mondo.
Quando arriviamo al punto di gridare “Signore aiutami”, non è più così. Gridiamo semplicemente l’insopportabilità della nostra condizione. Con il nostro grido, implicitamente chiediamo a Dio di venirci incontro, di trasformare la nostra inquietudine, di sostenerci e di illuminarci nella revisione profonda della nostra vita e delle nostre priorità. Col nostro grido di aiuto ci mettiamo completamente nelle mani di Dio.
Sappiamo bene, come testimonia la Bibbia in moltissimi passaggi, che Dio ascolta sempre il grido di chi lo invoca. Che ascolta anche le nostre parole balbettate, quelle che si trovano nel fondo del cuore e quelle che abbiamo anche vergogna ad esprimere.
La preghiera ci rende attivamente partecipi di quell’intimità che Dio continuamente ci offre. Più spontanea e profonda è questa intimità, maggiore è la confidenza, la sintonia e l’affidamento fiducioso.
Nell’intimità della relazione, sperimentiamo che la preghiera più adeguata alla nostra situazione, anche se difficile, è sempre quella che ci ha insegnato Gesù: sia fatta la tua volontà.
In questa intimità, scopriamo che ci viene dato quando chiediamo, che troviamo quanto cerchiamo, che ci viene aperto, anzi spalancato, quando bussiamo, ma in un modo diverso da come ci saremmo aspettati.
Il Padre nostro che è nei cieli, forse non risponde alle richieste come noi vorremmo e quando vorremmo, ma dà sempre «cose buone a quelli che gliele chiedono!» (Mt 7,11). Ci dà sempre quello che serve per il nostro vero bene.
È l’esperienza che fa anche la regina Ester. Segnata da «angoscia mortale» (Est 4,17k), per la vita degli israeliti presenti nel territorio del re Assuero e la propria stessa vita, trova rifugio nel Signore al quale affida la sua condizione e quella del suo popolo.
Con la solitudine nella quale si trova di fronte al dramma che grava sulle sue spalle, Ester si consegna completamente a Dio, che, solo, può salvarla dal grande pericolo che la sovrasta (cfr Est 4,17l).
«Si tolse le vesti di lusso e indossò gli abiti di miseria e di lutto» (Est 4,17k). Come l’abito della sposa per lo sposo, l’abito di penitenza sembra quasi assumere un ruolo di seduzione, come se Dio dovesse commuoversi proprio per la miseria di questa donna: «sono sola e non ho altri che te, Signore!» (Est 4,17t).
La drammaticità degli eventi esige e provoca una più forte e intensa comunione tra Ester e il suo Signore.
Gesù stesso esprime in modo più forte e anche drammatico la sua comunione col padre, nei momenti di maggiore incomprensione e solitudine, soprattutto quando tutti lo abbandonano.
Ester ripercorre la sua storia familiare, nella quale ha ricevuto l’annuncio di come Dio abbia eletto Israele tra tutte le nazioni per farne la sua eredità.
Il popolo non è stato certamente fedele a questo dono d’amore, ma in questo momento Dio è chiamato a manifestare tutta la sua giustizia di salvezza, che perdona e salva.
Nella preghiera di Ester si incrociano più volte la sua persona e la sua solitudine con il noi di tutto il popolo. Sorreggendo lei Dio salva tutto Israele (cfr Est 4,17r-t).
Ester, con la sua fedeltà e la sua angosciata e fiduciosa preghiera, non salva solo la sua vita ma anche quella di tutto il suo popolo.
Affidare a Dio, anche gridando, la propria situazione, la propria angoscia, ci apre a prospettive nuove.
Coltivare e custodire la comunione con Dio aperti alla dimensione della fraternità, non solo fa sperimentare la gioia che scaturisce anche dai giorni tristi, ma ci rende benedizione per le persone vicine e per l’intera comunità.