Don Giovanni Momigli

Omelia Badia Fiorentina 23 aprile 2022

Sabato Ottava di Pasqua: At 4,13-21   Sal 117   Mc 16,9-15

L’evangelista Marco, con il suo stile essenziale, presenta in poche righe diversi incontri con Gesù dopo la sua risurrezione, evidenziando senza timore la perplessità e incredulità degli apostoli.

Arriva Maria di Màgdala ad annunziare ai discepoli di avere visto il Signore Risorto: «Ma essi, udito che era vivo e che era stato visto da lei, non credettero» (Mc 16,11).

Arrivano due discepoli che erano in cammino verso la campagna, che presumibilmente sono quelli di Emmaus che ritornano per riferire «ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24,35): «ma non credettero neppure a loro» (Mc 16,13).

Alla fine è Gesù stesso che appare «agli Undici, mentre erano a tavola e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto» (Mc 16,14)

Sembra che l’evangelista voglia mettere in evidenza la grande e quasi insormontabile difficoltà a credere alla Risurrezione.

La difficoltà a credere non riguarda solo gli avversari di Gesù, come i sommi sacerdoti e capi del popolo, ma si trova anche nel cuore di coloro che appartenevano alla cerchia più intima dei discepoli.

Ci sono forme di incredulità che possono coesistere pure nei credenti, compresi i consacrati. Anche il discepolo è esposto al rischio di convivere con l’incredulità e la propria durezza di cuore.

Incredulità e durezza di cuore sono ostacoli forti e ricorrenti all’accoglienza della verità, offuscano anche la fede e generano una specie di ottusità dello spirito.

Un cuore indurito richiama sempre una coscienza chiusa, schiava dei propri schemi e prigioniera del proprio orgoglio. Una coscienza che pretende di essere non l’ultimo, ma l’unico riferimento.

Dopo tanto tempo trascorso con Gesù, ancora prevale nei discepoli il bisogno di ricondurre tutto alla sola dimensione razionale, comprensibile e definibile. Il nuovo non ha posto. Ma il Risorto esige che vengano oltrepassati i confini di ciò che è noto per aprirsi all’ignoto.

Nonostante l’incredulità dei suoi discepoli, il Signore non li rifiuta mai, non li rinnega mai. La sua fedeltà nei loro confronti rimane sempre ferma, senza ripensamenti.

Sono increduli e duri di cuore, ma Gesù affida proprio a loro l’annuncio del suo Vangelo «a ogni creatura» (Mc 16,15).

Ed essi, mossi dallo Spirito Santo, mettono la loro vita a servizio del Vangelo, come appare da tutto il racconto degli Atti.

Nel brano che la liturgia ci ha proposto come prima lettura, non si parla esplicitamente dello Spirito, ma la sua opera è stato chiaramente affermata poco prima, dicendo che Pietro parla ai capi del popolo e agli anziani «colmato di Spirito Santo» (cfr At 4,8).

Nel brano di oggi, però, si continua a parlare dello Spirito, anche se implicitamente, quando si afferma che i capi, gli anziani e gli scribi, si stupiscono della loro franchezza, perché «erano persone semplici e senza istruzione», «li riconoscevano come quelli che erano stati con Gesù» e vedendo «l’uomo che era stato guarito, non sapevano che cosa replicare» (Cfr At 4,13-15).

La franchezza dimostrata da Pietro e Giovanni non deriva solo dal coraggio umano. Il brano non vuole affatto mettere in risalto la bravura e la forza dei due apostoli, ma evidenziare che tutto è opera dello Spirito Santo.

L’essere colmati di Spirito Santo, consente a Pietro e Giovanni di ribattere senza timore alle minacce del tribunale, quando viene loro ordinato di «non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù» (At 4,18).

I capi, gli anziani e gli scribi, sono posti davanti a un’evidenza scomoda, che mette in discussione tutto e che non può essere soffocata.

Come dimostra la risposta senza timori di Pietro e Giovanni ai capi religiosi d’Israele che ordinano loro di non parlare di Gesù e non compiere nulla nel suo nome: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,19-20).

Come dire: voi che siete maestri siete in grado di capire che non possiamo tacere quello che abbiamo visto e udito.

Per non tacere quello che anche noi abbiamo visto e udito, occorre dire, o rinnovare, il nostro “eccomi”, facendo di Cristo risorto la novità e la forza della nostra vita e camminando insieme, arricchendoci l’un l’altro con i doni che lo Spirito distribuisce a ciascuno.

Non dobbiamo avere paura dei nostri dubbi, delle nostre incoerenze e contraddizioni. Quello che ha detto Papa Francesco lunedì scorso agli adolescenti riuniti in piazza San Pietro vale anche per noi: «Le paure? Illuminarle, dirle. Lo scoraggiamento? Vincerlo con il coraggio, con qualcuno che vi dia una mano. E il fiuto della vita: non perderlo, perché è una cosa bella».

Cristo è Risorto! Alleluia!

Don Momigli

condividi questo post

Facebook
Twitter
Pinterest