Venerdì della seconda settimana di Pasqua: At 5,34-42 Sal 26 Gv 6,1-15
Di fronte all’affermazione di Pietro e degli apostoli, «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5,29), i membri del sinedrio «si infuriarono e volevano metterli a morte» (At 5,33).
Togliere di mezzo chi non la pensa come noi, mettere a tacere le voci e le esperienze non omologate al pensiero comune e dominante, è tentazione ricorrente. È tentazione ricorrente anche pensare come immutabili i criteri e le modalità con cui un’esperienza è nata e si è affermata, mentre sono sempre necessari e doverosi adeguamenti per renderla viva nel contesto in cui siamo chiamati a vivere.
Questo vale per ogni ambito, anche religioso. E per ogni ambito valgono le sagge parole con cui Gamaliele convince il Sinedrio inferocito a rilasciare gli apostoli, come narra la prima lettura.
Gamaliele, «dottore della Legge, stimato da tutto il popolo» (At 5,34), è persona che non ha solo autorità, ma anche autorevolezza. È un uomo fedele alla tradizione, ma non è chiuso: si lascia interrogare dalla storia e si lascia sorprendere da Dio, che raramente segue i nostri tempi e i nostri modi.
La saggezza di Gamaliele nasce da un cuore che non si illude di poter piegare il corso della storia alle proprie visioni né di bloccarlo a causa delle proprie paure: «non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!» (At 5,38-39).
Le parole di Gamaliele sono frutto di quella saggezza che ha saputo seminare nel cuore di Saulo di Tarso, suo discepolo, radicale devozione alla tradizione dei padri e apertura alla novità. Apertura da cui è passato Cristo e che ha reso l’insegnamento di Paolo prezioso per ogni generazione di credenti.
I membri del sinedrio seguirono il parere di Gamaliele, ma prima «li fecero flagellare e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù». Tuttavia gli apostoli, «ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo» (At 5,42).
Questo atteggiamento degli apostoli, non consente a nessuno di nascondersi dietro la scusa dei momenti difficili. Se loro avessero ragionato così, non sarebbero giunti a noi l’annuncio di Cristo, il vangelo e i sacramenti.
In ogni tempo sono necessari testimoni credibili. E non possiamo delegare ad altri quello che è chiesto a noi. Ognuno di noi, in quanto battezzato, è per vocazione un testimone, uno che – come gli apostoli – dovrebbe essere lieto se, a causa della sua testimonianza, incontra difficoltà.
È la fiducia e la fedeltà dei discepoli che apre la via all’azione di Dio, come appare chiaro anche dal brano del vangelo che abbiamo ascoltato.
«Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Diceva così per metterlo alla prova» (Gv 6,5). Filippo, colto alla sprovvista da una richiesta provocatoria, tenta di far cogliere l’assurdità della domanda: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo» (Gv 6,7).
L’esperienza di Filippo, della sproporzione che c’è tra le sue possibilità e quello a cui è chiamato, è anche la nostra stessa esperienza. Umanamente sembra impossibile soddisfare le varie fami che tormentano il mondo. Fame di pace, di giustizia, di solidarietà, di amore e la fame di vita piena che alberga dentro di noi.
Gesù lo sa bene, ma ci sollecita a prendere atto sia della fame che tormenta l’umanità, sia dell’impossibilità di soddisfarla con i soli nostri mezzi, sia del fatto che Dio vede la fame di ogni persona.
Il senso d’impotenza, però, anziché paralizzarci deve mettere in moto le nostre poche risorse e suscitare il coraggio di fidarci di Gesù: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci» (Gv 6,9).
È necessario rieducarci al valore dei piccoli gesti e dei piccoli passi e a curarne la qualità. Pur incapaci di rispondere a ogni bisogno, sono le nostre piccole risposte a fare la differenza, soprattutto quando le mettiamo nelle mani del Signore.
Quando viviamo cose buone, facendo azioni di carità o fermandoci più lungamente nella preghiera, dobbiamo stare attenti a non cedere alla tentazione dell’umana gratificazione o, peggio ancora, del trionfalismo.
Gesù ci insegna a non sottrarsi mai davanti alle persone e al loro bisogno, ma anche ad evitare di assecondare la mentalità del mondo. Per questo, «sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo» (Gv 6,15).