Don Giovanni Momigli

Omelia Badia Fiorentina 11 maggio 2022

Mercoledì Quarta di Pasqua: At 12,24-13,5   Sal 66   Gv 12,44-50

La comunità di Antiochia è una delle prime e delle più vive costituite fuori Gerusalemme. Una comunità che è stata il trampolino di lancio di un cristianesimo capace di comunicare e di parlare un linguaggio nuovo, svincolato da tradizioni e schemi, precetti e legalismi, che potevano soffocare la novità del vangelo.

La comunità di Antiochia è una realtà plurale, fatta di stranieri, giudei nati in diaspora: commercianti, scienziati, nobili, letterati, giuristi, persone che svolgono tutti i mestieri portanti di una normale quotidianità.

Gli Atti sono il racconto diretto di come «la parola di Dio cresceva e si diffondeva» (At 12,24), perché parola viva, che corre ovunque, fino ai confini del mondo, per arrivare ad ogni persona.

Quella della parola è una corsa costante, dinamica, inarrestabile e sempre nuova. È il Signore Risorto che spinge i discepoli a parlare, ad annunciare, a osare la novità. Barnaba e Saulo «inviati dallo Spirito Santo, scesero a Selèucia e di qui salparono per Cipro» (At 13,4).

Nell’immagine della barca di Barnaba e Saulo, che si avventura verso mari e orizzonti inediti, possiamo cogliere una certa immagine di ciò che lo Spirito Santo intende suscitare nella vita dei credenti di ogni tempo, radunati e inviati dal Risorto ad essere annunciatori di una vita nuova.

È compito della chiesa essere sale, luce, lievito. Nella nostra vita ecclesiale, tuttavia, troppo spesso ci focalizziamo e dibattiamo sulla forma delle saliere e dei lampadari o ci fermiamo a discutere sull’impasto.

L’essere sale, luce, lievito, non è determinato dal numero dei cristiani o dalla quantità di spazi che i cristiani riescono ad occupare.

Come cristiani dobbiamo camminare e annunciare fiduciosi nell’azione dello Spirito, senza lasciarci paralizzare dagli ostacoli o dalle preoccupazioni per le insidie che si incontrano lungo il percorso.

Non si evangelizza applicando una particolare metodologia pastorale e l’annuncio del vangelo non può essere ridotto alla trasmissione di un contenuto. Tutto si gioca sulle modalità con cui si vivono le relazioni con il Signore e con gli altri.

Quella che risulta decisiva è proprio la dinamica della relazione, soprattutto quando la diversità dell’altro ci costringe ad approfondire le nostre ragioni e a purificare le nostre intenzioni.

L’essere luce, ma anche sale e lievito, è dato dal modo in cui viviamo il nostro essere discepoli di Gesù (cfr Gv 12,44), ma anche dal modo con cui stiamo in mezzo a coloro con cui condividiamo la quotidianità della nostra vita; dalla capacità che come cristiani abbiamo di generare e suscitare cambiamento, stupore, comunione solidale.

Per operare un costante discernimento comunitario e vivere una fattiva presenza nella storia come singoli credenti e come comunità cristiana, è essenziale stare in ascolto della Parola, assumere la concretezza della realtà e vivere il senso di appartenenza ecclesiale nella comunione.

La fede consente di vedere nella giusta luce la vita, le cose, la storia e illumina, in modo nuovo e profondo, sia la nostra realtà umana che la visione di Dio e il rapporto con lui.

Chi vede Gesù vede il Padre. Chi ascolta e accoglie la parola di Gesù incontra il Padre. Chi dimora in Cristo dimora nel Padre, vive un rapporto filiale di amore e tenerezza con lui.

È così grande questo mistero che a Gesù non basta dirlo, ma lo grida, anche se la versione italiana si limita a tradurre: «esclamò» (Gv 12,44).

Gesù grida per essere ascoltato, per farci sobbalzare. Grida chi è veramente il Padre e chi è lui, che vive del Padre e per annunciare il Padre. Grida per dire di essere la luce del mondo, che non è venuto per condannare ma per salvare, che il comandamento del Padre «è vita eterna» (Gv 14,49).

La nostra vita di fede, e la stessa evangelizzazione, debbono nutrirsi di questo mistero, per essere proiettate verso la pienezza della comunione.

Forse alla nostra vita e all’evangelizzazione manca proprio la dimensione escatologica, la visione straordinaria delle cose ultime che danno senso e sapore anche all’ordinarietà delle cose quotidiane.

Don Momigli

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