La vita cristiana tra il cristianesimo come religione culturale e la privatizzazione della fede – Schema incontro
Testimoniare nel mondo il vangelo è certamente anche una questione di linguaggio, di cambiamento di ritmi e di revisione delle strutture, partecipative e fisiche, ma è primariamente questione di presenza umile e vera nelle pieghe della vita.
Cercare Dio e porsi in ascolto della sua parola. Rispondere a Dio con la preghiera personale e comunitaria, con l’azione liturgica e con il ringraziamento e la lode; vivendo l’amore fraterno e coltivando la dimensione solidale incarnati nel contesto in cui viviamo.
Per incarnarsi è necessario conoscere il contesto in cui siamo. Ed è necessario prendere atto che il cristianesimo non è più la religione culturale del mondo in cui viviamo.
Papa Francesco lo ha detto più volte: «Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere» (Discorso alla Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015).
Il cristianesimo non è più religione culturale e la cultura, in occidente, ha smesso di essere religiosa: «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati» (Papa Francesco, Discorso alla curia romana, 19 dicembre 2019).
Il senso del sacro persiste, ma quasi tutto accade all’interno dell’interiorità personale o di un ristretto gruppo.
Questo ripiegamento nell’interiorità, voluto da una cultura che contrasta la dimensione religiosa nello spazio pubblico e ricercato da quei “credenti” che non si misurano col mondo e non riescono a collocarsi in questo spazio, rappresenta un grave immiserimento della fede e della stessa persona, che per sua natura è relazionale e sociale.
Una delle questioni di fondo, pertanto, non è primariamente data dalle chiese vuote – anche se questo, ovviamente, pone delle domande serie – ma dalla trasformazione del sentire, delle pratiche religiose e dei contesti in cui la presenza cristiana dovrebbe essere e non c’è, esponendo il vangelo all’inattualità.
Siamo pertanto chiamati a fare i conti con il confinamento della fede nell’interiorità e nell’irrilevanza pubblica della fede cristiana.
L’occidente, e in esso anche l’Italia, non è più una società cristiana omogenea, ma una società pluralista dove ci sono concittadini che hanno altre convinzioni religiose o non sono credenti. E anche i valori stessi dell’Occidente sono piuttosto in declino.
Basta pensare che il valore della persona si sta dissolvendo in un individualismo sempre più autosufficiente e indifferente al bene comune e che la pressione di un sistema comunicativo sempre più schematizzato, povero e arrogante mina la capacità di ragionamento e di pensiero, in un mondo che, invece, ha bisognoso di un nuovo pensiero.
La fede è la risposta libera dell’uomo alla chiamata di Dio. Va proposta, senza alcuna tendenza ad imporla.
Una Chiesa che vuole essere sinodale è, al suo interno, una Chiesa più fraterna, e nel suo rapporto col mondo, una Chiesa più umile. Una Chiesa aperta a quelli che cercano, che accoglie, non che condanna e che vive sulla difensiva. Una Chiesa che è solidale con le donne e gli uomini del nostro tempo, con le loro speranze e le loro gioie, con le loro tristezze e le loro angosce.
Come dice la Prima Lettera di Pietro, la testimonianza ecclesiale nella situazione attuale chiede non il proselitismo, ma di essere sempre «pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3,15).
Può essere utile anche ascoltare il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, che afferma: «Con il suo insegnamento sociale, la Chiesa intende annunciare ed attualizzare il Vangelo nella complessa rete delle relazioni sociali. Non si tratta semplicemente di raggiungere l’uomo nella società, l’uomo quale destinatario dell’annuncio evangelico, ma di fecondare e fermentare la società stessa con il Vangelo» (n 62). La logica è sempre quella del lievito.
Il secolarismo non nega la possibilità della fede, ma dice che la fede non ha nessun significato per la società. La religione diventa una convinzione privata che ha senso solo per la vita privata. È la tesi della privatizzazione della religione in una società secolarizzata.
La privatizzazione della fede è un attacco diretto al cuore stesso della fede cristiana, anche quando è sostenuta e vissuta dai praticanti.
La privatizzazione della religione si oppone radicalmente al Vangelo e a tutta la tradizione biblica. Non si può separare l’amore verso Dio dall’amore per il prossimo. Affermare che il messaggio del Vangelo non ha niente da dire sulle grandi sfide della società, fa perdere al Vangelo la sua essenza e alla Chiesa ogni credibilità.
Il vangelo coinvolge la nostra vita personale, familiare e professionale: la fede in Cristo ha anche un impatto sociale. Anche se i cristiani nel vivere lo spazio pubblico debbono saper portare non argomentazioni di fede, ma argomenti di ragione, pur ispirati dalla fede.
Esiste un legame inscindibile in quello che la Chiesa vive al suo interno e quello che vive al suo esterno, al suo modo di essere e di porsi nella società.
Dio ha scelto di convocare ogni essere umano «come popolo e non come esseri isolati. Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo isolato né con le sue proprie forze. Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana» (EG 113).
Questa consapevolezza è scarsamente presente in chi ricerca e coltiva forme intimistiche, sentimentali e individualistiche di devozione.
La distinzione tra la positiva pietà popolare e le forme marcatamente individualistiche e sentimentali sta proprio nella dimensione comunitaria della fede e nella concezione utilitaristica di alcune forme di pietà.
«Una cultura popolare evangelizzata contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine» (E.G, 68)
Bisogna anche essere consapevoli che, oltre all’individualismo della fede, il tarlo che corrode ogni forma comunitaria è anche quello che possiamo chiamare individualismo nei servizi comunitari.
A questo proposito la CEI, nel documento “Per una Chiesa Sinodale”, scrive: «Tante “bolle” separate rendono le comunità frammentate, spazi in cui si rischia di dividersi poteri e ruoli, di essere esclusivi ed escludenti verso chi bussa. Per contrastare la sfida della frammentazione, a livello parrocchiale e diocesano, occorre investire nella costruzione di relazioni fraterne, valorizzando la pluralità delle sensibilità e provenienze come risorsa. In particolare, la testimonianza della carità è misura della capacità di aprirsi» (2.8).
La consapevolezza che il Vangelo è il più potente e radicale agente di trasformazione della storia, e di risposta si bisogni profondi di ogni persona, non in contraddizione, ma proprio grazie alla dimensione spirituale e trascendente in cui è radicato e verso cui orienta, non consente nessuna privatizzazione della fede.
Teniamo sempre nella mente e nel cuore le parole di Gesù: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,13-16).