Don Giovanni Momigli

Intervento per gli ottanta anni delle ACLI di Firenze

Ottanta anni delle ACLI di Firenze – Palazzo Vecchio – Sala D’Arme – 22 febbraio 2025

Un saluto a tutti gli aclisti e a tutti i partecipanti da parte dell’arcivescovo, monsignor Gherardo Gambelli, che per impegni precedentemente assunti non può essere presente.

Celebrare ottanta anni di vita associativa è un’occasione propizia per ripercorrere la propria storia e le dinamiche sociali, culturali e politiche di questi decenni: la storia è sempre maestra, aiuta a riflettere e interpretare il presente.

Celebrare ottanta anni di vita è anche un’occasione per delineare il futuro ben radicati nell’oggi: occorre motivare e formare all’impegno associativo, per costruire insieme agli altri la società che vorremmo lasciare alle future generazioni.

Per individuare le coordinate necessarie per una nuova spinta propulsiva, è certamente necessario rifarsi al ruolo svolto dai cattolici che hanno dato vita alle ACLI a livello nazionale e locale, ma non sufficiente.

Per disegnare il futuro con i piedi ben piantati a terra, bisogna tener conto che l’attuale contesto sociale, culturale, politico, e anche ecclesiale, è profondamente differente da quello in cui si sono formati e hanno operato i cattolici italiani fino a pochi decenni fa.

Dalla fine del Novecento abbiamo vissuto un drammatico scivolamento, talvolta impercettibile, verso un individualismo strisciante e una pericolosa crisi della socialità.

Individualismo e mancanza di socialità hanno dato fiato anche a una spiritualità soggettivistica, che rischia di minare la dimensione sociale della fede – costitutiva dell’essere cristiani – e di ostacolare ogni possibilità di aggregazione comunitaria, ecclesiale e sociale.

Nella vita concreta di molti praticanti, non solo sembra prevalere un atteggiamento di disinteresse, se non di insofferenza, nei confronti della dimensione sociale e della politica, ma la ricerca del proprio privato benessere, della propria individuale spiritualità, sembra prevale su ogni senso di dimensione comunitaria, anche ecclesiale.

Nel pensare al ruolo che le ACLI sono chiamate a svolgere nel contesto attuale, non si può trascurare il fatto che anche nei cattolici prevale una concezione egoistica: si comportano come gli altri a livello di pensieri, di ragionamenti e di scelte. Non si cerca più chi lavora per il bene comune, ma ci si accontenta della proposta di un leader che prometta di migliorare la propria condizione.

Non si può neppure trascurare il fatto che mentre si esalta (oltre misura?) la libertà individuale – intesa come assenza di ogni tipo di vincolo, anche relazionale – e coloro che fanno di questa concezione della libertà la cifra delle proprie battaglie e del proprio programma politico, gli squilibri e le diseguaglianze si sono accentuati.

«Nella società di oggi, l’essere umano rischia di smarrire il centro, il centro di sé stesso. L’uomo contemporaneo, infatti, si trova spesso frastornato, diviso, quasi privo di un principio interiore che crei unità e armonia nel suo essere e nel suo agire. Modelli di comportamento purtroppo assai diffusi ne esasperano la dimensione razionale-tecnologica o, all’opposto, quella istintuale. Manca il cuore» (Dilexit nos, 9).

C’è bisogno di cultura in senso alto. Serve un lavoro collettivo di pensiero. C’è bisogno di assumersi responsabilità e di costruire cose nuove. Sono necessari spazi di pensiero e di elaborazione, per contrastare l’egemonia culturale dominante, soprattutto riguardo alla visione di persona, mai così messa in discussione come in questa fase storica.

È vero che stiamo assistendo a un positivo fermento, come quello scaturito dal cammino sinodale e dalla 50° Settimana Sociale di Trieste. Ma è pur vero che a livello diffuso la quotidianità del mondo cattolico è molto meno vitale di quanto queste iniziative possono far pensare, proprio perché è venuta meno la dimensione sociale della fede e la partecipazione alle iniziative di aggregazione e socializzazione.

Non si può rimettere al centro della politica il bene comune, se permangono radicati gli individualismi privati e collettivi e se non si investe in socialità con modalità adeguate a questo nostro tempo. Una socialità viva può contribuire a migliorare il funzionamento delle stesse istituzioni e a rendere viva la comunità ecclesiale a tutti i livelli.

Il Paese ha bisogno di persone mature, ben radicate nei valori, competenti e capaci di saper stare in un contesto plurale. La Chiesa e la società hanno bisogno di persone e comunità pensanti, non solo reagenti e tanto meno indifferenti.

La socialità, la comunità e la partecipazione sono l’alveo naturale e necessario per la nascita, la maturazione, la vita e la trasmissione della fede cristiana. Socialità, comunità e partecipazione sono pure l’alveo indispensabile per far crescere l’amore politico e l’amicizia sociale.

Forti della propria storia, anche le ACLI fiorentine sono chiamate ad affrontare la grande sfida della conversione dall’individualismo alla relazionalità, anche ridando senso e vigore ai circoli, come presidi di socialità e di partecipazione, e alla presenza nel dibattito pubblico.

Don Momigli

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