Don Giovanni Momigli

Incontro sul Lavoro – Scandicci 1 marzo 2021

SCHEMA DI INTERVENTO

«E Dio creò» (Gen 1,27). Creò il mondo, creò l’uomo, e diede una missione all’uomo: gestire, lavorare, portare avanti il creato.

La parola lavoro è quella che la Bibbia utilizza per descrivere l’azione creativa di Dio: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto» (Gen 2,2).

E consegna questa attività all’uomo, tanto che il lavoro umano è la vocazione dell’uomo ricevuta da Dio alla fine della creazione dell’universo.

E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,27-28).

Il lavoro rende l’uomo sempre più simile a Dio, perché con il lavoro l’uomo è capace di creare tante cose – anche di creare una famiglia – e coinvolge l’uomo in tutto: nel suo pensiero, nel suo agire, tutto.

L’uomo è coinvolto nel lavoro di Dio. La prima vocazione dell’uomo: lavorare. E questo dà dignità all’uomo. La dignità che lo fa assomigliare a Dio. In questo c’è la dignità del lavoro.

Parlare di lavoro significa parlare dell’essere umano, creato maschio e femmina a immagine e somiglianza di Dio, ma significa parlare della casa comune, creata da Dio prima dell’uomo e affidata alle mani dell’uomo.

L’uomo non può essere pensato in astratto, come individuo, ma come persona caratterizzata dalla sua strutturale dimensione relazionale.

L’uomo è relazione con gli altri e con l’ambiente e di entrambi deve avere cura. Ed ogni nostro progetto, ogni nostra speranza, è una chiamata alla nostra responsabilità, personale e collettiva.

Concetto espresso dal tema della prossima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani – Taranto 21-24 ottobre 2021: Il Pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso.

L’uomo è anche in relazione con la storia. Quella passata, che è chiamato ad accogliere come dono e compito, e di quella futura, che deve contribuire a costruire vivendo con responsabilità nella situazione presente.

Molti vivono la fase attuale in modo drammatico, anche a causa della pandemia. Certamente per la salute, per i pesanti riflessi economici e il forte aumento delle disuguaglianze sociali. Ma anche per il disagio derivante da un senso profondo di insicurezza sociale e di esclusione e per i cambiamenti che investono il mondo del lavoro, compreso il modo di intenderlo e di svolgerlo.

In larga misura, pesa il clima di smarrimento culturale e morale che caratterizza questo nostro tempo; il disorientamento che deriva dal non sentire più la validità degli orizzonti e delle motivazioni che ci hanno accompagnato fino ad oggi, senza riuscire a individuare orizzonti e motivazioni capaci di ridare un senso e una direzione.

Si vive la tensione che deriva dal percepirsi tra un “non più” e un “non ancora”, caratterizzato da provvisorietà e contraddittorietà

Non si tratta più solamente di progredire, ma anche di domandarsi il perché e il come progredire.

Questo esige, fra l’altro, che nel concetto di qualità della vita venga incluso anche quello relativo a una vita di qualità, rimettendo il lavoro al centro della società e dei processi economici, con tutto quello che questo comporta sul piano culturale, progettuale e fattuale.

Va profondamente riconsiderato il rapporto con il lavoro, tra lavoro e tempo libero, tra tempo libero e tempo della festa, tra successo e realizzazione di sé, tra l’abitare in un luogo e sentirsi parte di una comunità.

Basta pensare alle innovazioni date dall’industria 4.0, senza addentrarsi sul futuro del lavoro, e della vita, che deriva dalla crescita della GIG economy (la cosiddetta economia dei lavoretti) che esige un’attenzione tutta particolare e un’adeguata regolamentazione,

Non si può guardare solo all’aspetto funzionale. Occorre necessariamente riflettere sugli effetti antropologici, sociali ed economici che questa nuova rivoluzione industriale comporta, a partire dalla rivoluzione del mercato del lavoro.

L’utilizzo della scienza e della tecnologia non è mai neutrale, può implicare, dall’inizio alla fine di un processo, diverse intenzioni e possibilità, in vario modo configurate.

Il lavoro riguarda l’uomo e l’uomo deve rimanere il soggetto della tecnologia, non divenirne oggetto. Per questo, pur coltivando le competenze e le qualità tecniche, non possono essere trascurate le conoscenze e le qualità umanistiche.

Si parla di industrie intelligenti, lavoro intelligente e anche di città intelligenti. A me pare che sia soprattutto necessaria la sensatezza.

Servono industrie sensate, lavoro sensato, città sensate. La sensatezza è necessaria perché l’uomo rimanga protagonista dei processi; per coltivare la dignità, la libertà e la socialità di tutti gli uomini, nell’ottica del bene comune.

La Costituzione inizia dicendo che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Possono bastare la formazione tecnica e professionale a far riscoprire che il lavoro è una dimensione essenziale della persona? A mettere nel cuore e nella mente il valore del lavoro, di un lavoro dignitoso e ben fatto? A fare in modo che un imprenditore rimanga tale senza trasformarsi in speculatore?

Lo sviluppo delle competenze è cosa certamente necessaria, com’è necessario che vengano attivati sistemi capaci di favorire al meglio l’effettivo incontro tra domanda e offerta.

Tuttavia se manca una seria e profonda educazione al lavoro, come fondamentale questione antropologica e culturale nella vita personale e in quella sociale, nella mente e nel cuore il centro non sarà mai il lavoro, con la dignità che questo conferisce alla persona e l’essenzialità che esso ha per la vita e l’economia reale. Continuerà ad essere il denaro, con tutto quello che questo comporta a livello di priorità e di scelte nella vita personale e in quella sociale e politica.

L’enciclica Fratelli Tutti, non è specifica sul lavoro, ma assieme alla Laudato sii, affronta i nodi e le sfide che abbiamo di fronte in questa particolare cambiamento d’epoca, che occorre tener presenti anche nell’affrontare la questione del lavoro.

È necessario pensare e generare un mondo aperto (cap. 3), gettare le basi per “la migliore politica” (cap. 5), creare le condizioni per il “dialogo e amicizia sociale” (cap. 6) e aprire “percorsi di un nuovo incontro” (cap. 7)

Parlando specificatamente di lavoro, Papa Francesco afferma che «Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro» (Laudato si’ 128). Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». [Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (12 gennaio 2015). In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo» (F.T.162).

E parlando di chi è impegnato direttamente in politica afferma; «Pensando al futuro, in certi giorni le domande devono essere: “A che scopo? Verso dove sto puntando realmente?”. Perché, dopo alcuni anni, riflettendo sul proprio passato, la domanda non sarà: “Quanti mi hanno approvato, quanti mi hanno votato, quanti hanno avuto un’immagine positiva di me?”. Le domande, forse dolorose, saranno: “Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?”» (F.T.197).

Don Momigli

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