Nel libro Ritorniamo a sognare, pubblicato alla fine del 2020, papa Francesco ha scritto che «Un pensiero fecondo dovrebbe essere sempre incompleto per dare spazio a sviluppi successivi».
Per Papa Francesco, incompleto vuol dire aperto, flessibile, in ricerca, creativo, generoso. Un pensiero che tende a un orizzonte che mai si raggiunge e sempre sorprende, rende inquieti. Un pensiero che, sul piano ecclesiale, non si accontenta delle sintesi raggiunte, ma prosegue nell’approfondimento per raggiungere sintesi sempre nuove e spinge a evangelizzare con coraggio, sapendo che Dio è sempre avanti, ci precede sempre.
Come Abramo che esce dalla sua terra, in obbedienza al comando del Signore, così è di fatto il cammino dell’uomo e, specificatamente, del cristiano: camminare sempre avanti.
Nella Costituzione apostolica Veritatis gaudium (circa le università e le facoltà ecclesiastiche) Francesco afferma che oggi si fa sempre più evidente che «c’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede. La filosofia e la teologia permettono di acquisire le convinzioni che strutturano e fortificano l’intelligenza e illuminano la volontà… ma tutto questo è fecondo solo se lo si fa con la mente aperta e in ginocchio.
Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, secondo quella legge che san Vincenzo di Lérins descrive così: “annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate” (Commonitorium primum, 23: PL 50,668)». Cioè anche il dogma «progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età»
Questo significa che non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può cristallizzare, legandola a una lettura rigida e immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo.
Chi definisce confini immutabili, non progredisce. Un pensiero fecondo è un pensiero che ha raggiunto delle acquisizioni, ma che non si ferma e dà spazio a sviluppi successivi.
Pretendere certezze assolute su tutto è frutto di uno spirito ansioso, oltre che un’impresa umanamente impossibile e che porta a deviazioni pericolose, come quelle legate alla fedeltà formale e immutabile alla Legge, contro cui si è schierato Gesù.
I problemi complessi, come le questioni che si presentano ponendo aspetti di novità, non possono essere risolti solo sulla base delle norme e di quanto già acquisito, ma con un pensiero che, forte di quanto raggiunto, è proiettato in avanti, permettendo di attraversare le sfide e gli eventuali conflitti senza restarne intrappolati.
Aspetti essenziali per un pensiero che non si accontenta di quanto acquisito, ma cerca sempre approfondimenti ulteriori, sono la mentalità dialogica, l’inclusività, l’apertura attenta e responsabile all’altro, l’apertura alle sfide.
La mentalità dialogica è frutto e causa di un pensiero non autoreferenziale, non timoroso e non astratto. Ogni persona ha sempre qualcosa da darci, se il nostro atteggiamento è umile e senza pregiudizi e se ricordiamo che le persone sono più importanti del contenuto del dialogo.
Papa Francesco parla di due tipi di soggetti che non riescono a dialogare, perché sono chiusi in sé stessi: quelli che riducono il proprio essere al loro sapere o al loro sentire; quelli che riducono il proprio essere alle loro forze.
Il dialogo implica la convinzione del nostro essere sociale, della nostra incompletezza individuale e comunitaria, che è un fattore positivo, perché ci impedisce di essere soggetti chiusi.
Dopo aver rilevato che essere discepoli di Cristo comporta una disposizione continua a portare agli altri l’amore del Signore in qualsiasi luogo e attraverso un dialogo personale (cfr EG 127-128), il Papa ci fa notare che «se il Vangelo si è incarnato in una cultura, non si comunica più solamente attraverso l’annuncio da persona a persona» (EG 129).
Già Giovanni Paolo II diceva che «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (16/1/1982).
La fede, come le altre virtù, non dice perfezione, ma costante dialogo con la realtà, perché «l’essere umano è sempre culturalmente situato: “natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse” (G.S., 53). La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (E.G, 115).
Il nostro annuncio del Vangelo deve coinvolgere l’aspetto culturale, per consentire alla predicazione di non essere «scollegata», o qualcosa di «meramente spirituale», bensì un Vangelo incarnato, che raccoglie le sfide del mondo e risponde alle sue preoccupazioni con proposte efficaci.
La nuova mentalità che il Papa ci invita ad acquisire ha un carattere eminentemente sociale e si focalizza sull’inclusione.
L’esperienza dell’inclusione pone due questioni. Una teorica: il nostro pensiero non può «cogliere» la totalità del reale, ma può «aprirsi» a questa totalità in una dinamica continua. Una pratica: non è possibile «escludere». Gli esclusi «si includono» con le buone maniere o, prima o poi, essi «ci escludono» con le cattive maniere. La storia dimostra come da una generazione all’altra cambiano dinamiche, equilibri, assetti.
Un pensiero che non è chiuso in sé stesso si lascia interpellare drammaticamente dall’altro e dagli eventi, in modo particolare dal grido dei poveri.
«Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e a soccorrerlo. […] Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto» (EG 187).
Essere consapevoli che il nostro pensiero è sempre limitato, lo sblocca e lo rende più acuto e creativo, capace di affrontare le sfide che la vita e la storia pongono.
Una mente creativa è flessibile e aperta a nuove conoscenze, riesce a trovare connessioni, si adatta agli imprevisti, scopre vie inesplorate per risolvere problemi, accoglie le differenze, concepisce i fallimenti come opportunità di apprendimento, abbraccia il possibile e l’indefinito, anticipa e prevede, sviluppa idee uniche e utili.
Ad esempio, solo una sensibilità e consapevolezza che il pensiero e le sintesi raggiunte sono limitati, può portare a vivere la dinamica che Amoris Laetitiae, suggerisce riferendosi alla ‘fragilità’ delle famiglie e che si esprime con tre verbi: accompagnare, discernere e integrare.
Per il Papa sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione. Il lavoro della Chiesa, pertanto, assomiglia a quello di un ospedale da campo e la cui “logica” che lo ispira è quella della “misericordia pastorale”, ossia l’annuncio del vangelo alle persone nella loro concretezza.