Solennità di Pentecoste (At 2,1-11 Sal 103 Rm 8,8-17 Gv 14,15-16.23-26)
La liturgia ci invita ad aprire la mente e il cuore al dono dello Spirito Santo, promesso da Gesù ai discepoli e donato loro dopo la risurrezione.
Lo Spirito è sfuggente e imprendibile, come dimostrano le immagini con cui la Scrittura lo presenta.
Viene anzitutto presentato come vento. In ebraico e in greco, il termine spirito vuol dire proprio vento. Il vento è inafferrabile ma nello stesso tempo reale, potente. Il vento può scardinare ogni chiusura ed è una forza che muove persone e cose.
Come narra il racconto degli Atti che abbiamo ascoltato, viene anche descritto come fuoco, che illumina e riscalda. E viene pure presentato come colomba, che nella tradizione biblica ricorda la purezza e la bellezza e annuncia la salvezza. Si parla dello Spirito come acqua che disseta e che dona la vita. Gesù ne parla anche come paraclito, difensore e consolatore.
Quello dello Spirito, come del resto la Trinità di Dio, è un mistero che non può essere compreso nella sua profondità né tanto meno può essere spiegato con parole umane. Al massimo si può balbettare qualcosa.
Di fronte alla misteriosa realtà di un Dio che è Padre, che si rivela nel figlio Gesù, che manda a noi lo Spirito, ci si può solo fermare in contemplazione.
Gesù è risorto ed è apparso ai suoi. I discepoli però sono chiusi in casa per timore di essere arrestati e uccisi. All’improvviso lo Spirito venne «quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2), dando ai discepoli il coraggio di uscire e annunciare la risurrezione del Signore.
I discepoli furono «Colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi… ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,4-5).
La diversità di popoli, culture e linguaggi creata da Dio è cosa buona, perché consente l’espressione di sé, e non è un impedimento alla comprensione e alla fratellanza. Lo Spirito santo rende la nostra diversità ricchezza per tutti.
Un impedimento alla fratellanza, invece, è il tentativo tutto umano all’omologazione e all’autoreferenzialità, come emerge dal racconto della Torre di Babele, ascoltato ieri sera nella Messa della vigilia di Pentecoste.
La vicenda di Babele mette in luce il tentativo dell’umanità di abolire le diversità, pretendendo di creare un solo stato, una sola religione e un unico popolo, come simboleggia l’unica torre.
Per certi aspetti anche in questo nostro tempo c’è una manovra che punta all’uniformità, attraverso il tentativo di imporre una specie di pensiero unico, che appiattisce l’umanità sulla logica del consumo e del potere e, in alcuni tratti, anche nell’odio.
«Oggi, una delle sfide più importanti è quella di promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi» (Leone XIV, Discorso agli operatori della comunicazione, 18 maggio 2025).
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). Queste parole ci ricordano che l’amore per il Signore, e anche per una persona, si dimostra non con le parole, ma con i fatti.
Osservare i comandamenti non va inteso in modo formale, ma esistenziale: tutta la vita è essere coinvolta.
Essere cristiani non significa appartenere a una certa cultura o aderire a una certa dottrina, ma legare la propria vita, in ogni suo aspetto, alla persona di Gesù.
Grazie allo Spirito Santo, Amore che unisce il Padre e il Figlio e da loro procede, tutti possiamo vivere la stessa vita di Gesù.
Lo Spirito ci insegna ogni cosa. Ci insegna che l’unica cosa indispensabile è lasciarsi amare da Dio e amare come ha amato Gesù.