Il primo ed essenziale atteggiamento per poter camminare insieme – cosa assai diversa da camminare semplicemente a fianco – è quello dell’ascolto. Ascolto di sé stessi, ascolto dell’altro, ascolto degli avvenimenti, ascolto della parola di Dio.
Ascolto che esige aderenza alla realtà per quella che è, non per come la vorremmo, ed esige capacità di pensiero in chi parla e in chi ascolta.
Nel conversare e nel cercare di convergere su quelli che sono i temi che sarebbe necessario e doveroso mettere a fuoco, per poi arrivare ad assumere le opportune decisioni, non si può eludere il fatto che stiamo vivendo una fase di povertà culturale, affettiva e relazionale.
Oggi, ad esempio, anche in relazione ai tragici fatti di cronaca come i molteplici femminicidi, sempre più spesso si parla di amore malato, amore possessivo, amore criminale. In realtà è la relazione ad essere malata, possessiva, criminale. L’amore, per sua stessa natura, è, e può essere, solo donazione.
Dall’ascolto reciproco spesso risuona la domanda: cosa facciamo? come ci comportiamo? quali decisioni assumere?
Tuttavia, dopo un primo e libero ascolto (come avvenuto nella prima fase del percorso sinodale), è necessario un ulteriore passo per individuare su quali questioni convergono le priorità, per verificare perché si ritiene di dover cominciare ad assumere decisioni su un aspetto anziché su un altro.
Prima della fase decisionale, quindi, c’è la fase che la Chiesa italiana chiama “sapienziale”, la fase in cui siamo chiamati a convergere su alcuni aspetti ritenuti essenziali e che domandano decisioni chiare.
Per passare dal semplice ascolto alla comune individuazione delle questioni da affrontare, è indispensabile il discernimento, personale e comunitario.
Il discernimento esige il sapere della ragione. Ma anche il sapere istintivo, quello dato dal fiuto e il sapere dato dall’esperienza. Ed è pure indispensabile il sapere della fede
Non dimentichiamo mai le parole di Isaia: «Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (55,9). E quello che dice Paolo: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom 12,2).
L’accoglienza del vangelo cambia modo di pensare, di vedere le cose e, quindi, gli stessi criteri del discernimento.
La parola di Dio è la luce e il nutrimento principale, ma il Signore ci parla anche attraverso le altre persone, oltre che con le situazioni e con l’intero universo.
Pertanto, per fare discernimento, dobbiamo ascoltare la parola di Dio, ma anche ascoltare le altre persone, giacché: «Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6)
Per quello che sono e per come sono ho qualcosa da offrire: da qui nasce la responsabilità. L’altro ha qualcosa da offrire a me e alla comunità: da qui nasce la necessità dell’ascolto.
Se l’ultima parola spetta ha chi ha il compito e la responsabilità della sintesi, tutti abbiamo, non solo il diritto, ma il dovere della penultima parola.
Per fare discernimento vanno tenuti presenti almeno quattro punti: liberarsi da ogni vantaggio egoistico, anche psicologico; ascoltare il pensiero di chi si conosce essere persona saggia, sincera e anche competente; rispetto del comandamento dell’amore: dove non c’è carità non ci può essere verità; tener presente che il pensiero della Chiesa non è parola di Dio, ma non è un pensiero qualunque.
Nel momento in cui il mio io è fortemente autocentrato e indifferente all’altro, si produce la frantumazione del noi: i legami si sfilacciano e le comunità si dissolvono. Così come nel momento in cui privatizzo la mia fede, entra in crisi il senso della comunità
C’è un prevalere dell’io, della soggettività personale rispetto al noi ecclesiale. Il noi non è la convergenza di tanti io in un dato momento, ma un noi maturato nelle generazioni. Stiamo perdendo il senso del noi, anche perché perdiamo il senso del tempo e della storia e appiattiamo tutti sul qui e ora.
Ascoltare porta con sé l’accogliere. Accogliere è la parola chiave di questa fase storica. Una parola che racchiude il senso di una cultura e di una civiltà. Ed è una parola divisiva, attorno alla quale si creano schieramento contrapposti, non solo nella società ma anche nella Chiesa: accogliere chi? perché? a quali condizioni?
Essere aperti o chiusi all’accoglienza determina un modo di stare al mondo. Nell’accogliere o nel rifiutare mettiamo alla prova noi stessi, l’idea che abbiamo di noi stessi, come singoli e come comunità.
Accogliere è un atteggiamento da forti non da deboli o infragiliti. Ecco perché la questione dell’accoglienza si fa più problematica con l’anzianità. Gli anziani, o una società anziana, sono in genere più timorosi, più difensivi, meno desiderosi di intraprendere una nuova dinamica di vita.
Per questa ragione, la stessa accoglienza degli immigrati, che esige seri percorsi di interazione e integrazione sociale, saranno sempre più difficili con l’invecchiamento della popolazione. Ma proprio per l’invecchiamento della popolazione, accogliere e integrare, più che una scelta, sta sempre più diventando una necessità.
Essere tolleranti è cosa ben diversa dall’essere accoglienti. Si può anche arrivare a tollerare tutto, ma accogliere tutti non significa poter accogliere tutto
Stiamo attenti a non dare alla parola accoglienza solo un significato morale, perché con l’accoglienza inizia un percorso, anche dentro la Chiesa. Non c’è futuro se non c’è slancio, se non c’è sogno. Ma ci vogliono sogni collettivi, non solo sogni individuali.
E noi siamo chiamati a fare nostri i sogni di Dio.